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Consenso Informato

Ruolo e rilievo del consenso del paziente nell’attività di “emergenza-urgenza”[*]

Esiste un detto secondo il quale “Vi sono due tipi di motociclisti: quelli che hanno già subìto un incidente e quelli che lo subiranno in futuro”.
L’analisi delle cronache giudiziarie degli ultimi decenni induce purtroppo a ritenere che discorso analogo possa farsi per la classe medica: vi sono sanitari che sono già stati coinvolti in qualche modo in azioni giudiziarie (civili, i più fortunati, ma anche penali), e sanitari che probabilmente lo saranno in futuro.

L’esercizio della professione medica si caratterizza infatti, nell’attuale momento storico, non solo per il suo elevato valore etico e sociale, ma anche per la sua idoneità ad integrare fattispecie illecite.
Ogni intervento (anche quello apparentemente più banale e routinario) pone infatti il sanitario dinanzi a problematiche e questioni non solo di natura medica (come è naturale che sia) ed etica (in quanto il sanitario deve rispondere del suo operato dinanzi alla propria coscienza ed alla coscienza collettiva), ma anche di natura legale, in quanto ogni sua azione (ed ogni sua omissione) può essere per lui fonte di responsabilità di varia natura: penale, civile, disciplinare.


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I rischi professionali dell’attività sanitaria in emergenza-urgenza

La problematicità (non solo di carattere medico, ma anche etico e giuridico) delle diverse questioni che ogni medico incontra giornalmente acquista poi una criticità particolare proprio nell’ambito dell’attività di pronto soccorso, specie extraospedaliera, in quanto la particolarità delle circostanze in cui essa viene prestata, e l’urgenza che caratterizza sovente gli interventi di pronto soccorso, rendono per il sanitario ancor più difficile adeguare il proprio comportamento ai dettami non solo della scienza di cui è esperto (la scienza medica), ma anche delle disposizioni normative vigenti nel nostro ordinamento.
Infinite volte, nel corso di un turno lavorativo, l’operatore sanitario viene posto di fronte a scelte difficili e si trova a domandare a se stesso: “potrei correre il rischio di espormi a responsabilità civili o anche penali se intraprendo un determinato trattamento? E se non lo faccio?” Oppure: “il Paziente può essere trattato utilmente presso questo presidio o è opportuno disporne il trasferimento ad altro ospedale?”.

In proposito è innanzitutto necessaria una premessa: non è possibile stilare una casistica al fine di indicare al medico come comportarsi in ogni circostanza, fornendo una sorta di “vademecum per andare esente da responsabilità”.
E questo per una molteplicità di ragioni. In primo luogo perché gli aspetti che concorrono a dare vita ad una fattispecie concreta sono infiniti: per individuare ogni singolo caso nella sua specificità bisogna infatti considerare tutte le caratteristiche che lo contraddistinguono (spaziali, temporali, soggettive ecc.). A ciò si aggiunga che la stessa varietà dei trattamenti praticabili e, soprattutto, la particolarità delle situazioni in cui gli stessi possono essere concretamente eseguiti, impongono di trovare di volta in volta soluzioni differenziate in relazione alle particolari contingenze nelle quali ci si trova ad operare.

E’ dunque necessario che il medico decida caso per caso quale sia il comportamento in relazione alle caratteristiche della fattispecie concreta a lui sottoposta, senza poter fare certo affidamento su regole generali predisposte in relazione a fattispecie astratte.
Va poi considerato che le possibili interpretazioni del dettato normativo sono infinite; nei sistemi di civil law (a differenza di quelli di common law) i giudici non sono vincolati ai precedenti giudiziari (nemmeno a quelli della Cassazione, che detta solo delle linee guida cui i magistrati possono ma non debbono adeguarsi); l’analisi della giurisprudenza degli ultimi decenni in tema di responsabilità medica rende peraltro evidente il continuo sforzo (di cui spesso sono promotori i giudici di merito) di adeguamento del dettato normativo ai principi della nostra Costituzione, specie in funzione di protezione dei c.d. soggetti deboli (nel caso di specie: i pazienti).

L’impossibilità di ordinare il proprio comportamento secondo regole precise che possano escludere alla radice ogni eventualità di essere coinvolti in vicende giudiziarie, non deve tuttavia indurre l’operatore sanitario alla inerzia (peraltro anch’essa fonte di responsabilità) né tantomeno allo sconforto.
Il medico può infatti “difendersi” dai rischi professionali cui necessariamente è esposto attraverso una approfondita conoscenza e comprensione della funzione della propria attività, ovvero della sua ragione giustificativa nell’ambito del nostro ordinamento.
Solo così è possibile individuare i principi che dovranno guidare la sua azione, e tali principi andranno poi applicati di volta in volta, attraverso un attento bilanciamento degli interessi in gioco, per dare luogo alla regola di comportamento per il caso concreto. L’operatore sanitario dovrà dunque acquisire la capacità di ragionare in termini non solo medici ed etici, ma anche legali. Il che non significa (soltanto) avere conoscenza delle disposizioni normative che possono interessare l’attività medica (peraltro sempre mutevoli), ma soprattutto saper realizzare la funzione che quest’ultima è chiamata a svolgere, nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento e degli interessi dei soggetti che accedono al servizio sanitario.

Il consenso informato in emergenza-urgenza

Proprio alla luce di queste premesse, è possibile tentare una trattazione consapevole del tema del “consenso informato”.
E’ a tutti noto che il consenso informato del paziente – conformemente al principio personalistico che informa il nostro ordinamento – costituisce in molti casi il discrimine tra liceità e illiceità nell’attività medica e terapeutica. La nostra Costituzione riconosce il diritto e la libertà, per ciascun individuo, di autodeterminarsi in materia di salute (artt. 32 e 13 cost.).
La regola nel rapporto medico-paziente deve dunque essere la consensualità, mentre i trattamenti sanitari obbligatori sono e devono essere l’eccezione. Solo in particolarissime circostanze, dunque, può riconoscersi legittimità ad un intervento sanitario “non consentito”: allorché ricorrono i presupposti per un trattamento o accertamento sanitario obbligatorio (legge n. 180 del 1978); negli altri casi in cui vi siano disposizioni legislative che prevedano espressamente limitazioni al diritto costituzionale degli individui di autodeterminarsi in materia di salute, a tutela di altri interessi di rilevanza costituzionale di livello superiore (si pensi alle vaccinazioni obbligatorie); allorché ricorrano i presupposti di cui all’art. 54 c.p., a mente del quale “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.

Il medico che abbia agito senza il consenso del paziente al di fuori dei casi innanzi descritti, non potrà invece giustificare il proprio comportamento ricorrendo alla scriminante di cui all’art. 51 c.p. (come pure da alcuni si invoca), ossia sostenendo di aver agito nell’esercizio di un diritto ovvero nell’adempimento di un dovere.
Ciò in quanto non esiste alcun diritto del medico (né tantomeno un suo dovere) di invadere la sfera personale del malato senza il suo consenso in mancanza di una situazione di pericolo quantomeno prossima o di una disposizione di legge che preveda un trattamento sanitario obbligatorio. Anche il nuovo codice di deontologia medica ha recepito tali istanze all’art. 32, sancendo che “Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisto del consenso informato del paziente […]” e che “[…] in ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona, ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo art. 78 (n.d.r.: il quale fa riferimento al TSO)”.
E’ pur vero che il codice deontologico (costituito da un corpus di regole di autodisciplina predeterminate dalla professione e vincolanti per gli iscritti all’ordine) non costituisce atto legislativo; tuttavia è chiaro che il giudice, nel valutare il comportamento del medico, ne apprezzerà la rispondenza anche al codice deontologico.

Senza il consenso del paziente, dunque, ogni intervento medico costituirà fatto illecito, e ciò a prescindere dal successivo esito della cura e dalla diligenza con la quale il trattamento viene prestato.
Ed infatti, se per un verso la violazione delle norme di diligenza resta illecita anche se sia stato acquisito il consenso del paziente, per altro verso il comportamento del sanitario che abbia agito in assenza di consenso conserva la sua illiceità nonostante la prestazione professionale sia stata poi eseguita in modo tecnicamente ineccepibile.

Il consenso del paziente al trattamento sanitario è dunque un presupposto imprescindibile della liceità dell’operato del medico, in quanto anche il trattamento correttamente eseguito incide sulla persona che vi si sottopone e sulla sua integrità fisica.
Per svolgere tale fondamentale funzione, però, il consenso deve presentare determinati requisiti di forma e di sostanza, così come il soggetto che lo presta deve possedere determinate caratteristiche. In caso contrario, il consenso si considererà come non ottenuto, con tutto ciò che ne consegue in termini di responsabilità del sanitario che abbia comunque operato.
Non basta dunque la sottoscrizione di un foglio predisposto dall’ente affinché il medico agente possa andare esente da responsabilità per il proprio operato, pur se abbia agito con la dovuta diligenza. La tutela che l’ordinamento intende apprestare alla parte debole (il paziente) non è infatti puramente formale, ma sostanziale.

L’informazione del paziente nelle attività sanitarie di pronto soccorso

Una volta che si abbia chiara quale è la funzione del consenso (ovvero dare legittimità ad un atto che altrimenti risulterebbe una indebita aggressione della integrità psico fisica dell’individuo) ogni medico deve acquisire la consapevolezza di essere tenuto, al fine di non incorrere in sanzioni di varia natura, ad assicurarsi che il consenso del paziente sia effettivo.
In caso contrario, esso non avrà alcuna funzione legittimante per l’operato del sanitario. L’effettività del consenso viene in primo luogo garantita dell’obbligo di informazione che incombe sul medico, sia da un punto di vista deontologico (art. 30), sia da un punto di vista giuridico. Il consenso deve essere infatti basato sulla comprensione e sulla consapevolezza del contenuto, delle finalità, della metodologia, dei rischi e dei benefici dell’atto, oltre che delle eventuali possibili alternative e delle conseguenze del dissenso.
Il sanitario dovrà pertanto prospettare al paziente quale sia la sua diagnosi, la prognosi, le diverse possibili opzioni di cura, i risultati prevedibili di ciascuna, gli effetti collaterali, le menomazioni. L’alleanza terapeutica tra medico e paziente si stabilisce sulla base della fiducia reciproca e di una adeguata comunicazione, in grado di coinvolgere il paziente e di aumentare la sua consapevolezza ed adesione alle indicazioni e prescrizioni del medico.

Non vi è dubbio che l’informazione debba essere modulata secondo le condizioni concrete del caso, ma deve sempre essere specifica e idonea ad essere pienamente compresa dal paziente (in considerazione anche delle sue condizioni socio culturali, dell’età, della sensibilità).
Particolare rilevanza assume inoltre, in questo ambito, la distinzione tra “trattamenti necessari” e “trattamenti di elezione”. I primi sono quelli che permettono di impedire che una situazione di pericolo attuale evolva in un danno grave; i secondi sono quelli che lasciano al paziente un margine di scelta in relazione al “se” ovvero al “quando” eseguire la prestazione medica.
Mentre in relazione ai primi l’art. 54 c.p. può imporre un intervento immediato a prescindere dal consenso (salva l’ipotesi di dissenso espresso e consapevole), nel secondo caso l’obbligo di informazione al fine di consentire al malato una scelta consapevole assume rilevanza pregnante.
Può in sostanza affermarsi che sono necessarie informazioni tanto più dettagliate quanto più il rapporto tra rischi e benefici sia squilibrato (si pensi ai casi di paziente anziano o di chirurgia estetica).

Assai delicata risulta la questione relativa alla possibilità che il medico limiti deliberatamente l’informazione al paziente che deve sottoporsi ad un intervento particolarmente rischioso ma necessario.
Si è sostenuto che in questi casi il sanitario possa invocare lo stato di necessità per omettere informazioni che potrebbero pregiudicare lo stato di salute del malato. Tuttavia, l’art. 30 del codice deontologico prevede che l’obbligo di informazione debba in ogni caso essere rispettato dal medico, pur con tutta la prudenza necessaria e pur senza escludere elementi di speranza. Deve in ogni caso essere evitato un “eccesso informativo” ove questo possa essere controproducente per la cura (ancora una volta sarà la discrezionalità e la coscienziosità del medico a costituire l’unico certo punto di riferimento per il suo operato!).

Nella prospettiva di tutela della parte debole, applicata al rapporto di spedalità, emerge con un significato nuovo e pregnante anche il dovere di informazione del medico in ordine alla idoneità ed adeguatezza della struttura, considerata nel suo complesso, ad assicurare la corretta esecuzione della prestazione.
Stabilisce Cass. n. 14638 del 2003:

Il consenso informato […] non riguarda soltanto i rischi oggettivi e tecnici […], ma anche la concreta, magari momentanea carente situazione ospedaliera, in rapporto alle dotazioni ed attrezzature, e al loro regolare funzionamento, in modo che il paziente possa non soltanto decidere se sottoporsi o meno all’intervento, ma anche se farlo in quella struttura ovvero chiedere di essere trasferito in un’altra“.

L’informazione garantisce dunque i presupposti minimi ed indispensabili per la prestazione di un consenso valido ed efficace.
Al fine di legittimare l’attività del sanitario, sono però necessari ulteriori requisiti. E’ in primo luogo evidente che il consenso deve essere dato prima dell’inizio del trattamento terapeutico.
In quanto attinente alla sfera personale dell’individuo ed ai suoi diritti inviolabili, lo stesso sarà sempre liberamente revocabile da parte del paziente (purché anche la revoca provenga da soggetto capace e sempre che non sussista lo stato di necessità – come potrebbe avvenire, ad esempio, quando la interruzione repentina del trattamento possa arrecare gravissimi danni ovvero la morte).
Si veda però, in proposito, la recente normativa (densa di implicazioni etiche) in tema di procreazione medicalmente assistita, che ha sancito la revocabilità del consenso al trattamento soltanto fino alla fecondazione dell’ovulo, a tutela della nuova vita in fieri (cfr. legge n. 40 del 2004).

Tratti caratteristici del consenso informato

Il consenso deve essere inoltre “rinnovabile”, nel senso che, ove nel corso della malattia si manifestino complicanze, o comunque la necessità di procedere ad accertamenti o trattamenti inizialmente non previsti né programmati, sarà necessario ottenere un nuovo consenso del paziente, previa informazione sull’evoluzione della patologia.

Il consenso deve poi essere circoscritto e determinato, ovvero diretto ad uno specifico trattamento, non già (come spesso avviene nella pratica) ad una serie infinita di pratiche più o meno individuate in prestampati che pretenderebbero di coprire ogni eventuale necessità mentre, in realtà, non svolgono funzione alcuna.
Destinatario del consenso è ovviamente il sanitario che effettua la particolare prestazione che di volta in volta viene presa in considerazione.
Si ritiene tuttavia che il consenso dato ad un medico valga a rendere lecito il trattamento anche se messo in atto da altro medico, purché con lo stesso grado di capacità e specializzazione.

Dubbi sulla operatività di questa estensione sussistono nel caso in cui il paziente abbia espressamente condizionato il proprio consenso all’intervento di un determinato medico. Il consenso deve essere prestato personalmente dal paziente (salvo i casi di incapacità), in quanto solo il soggetto titolare del bene giuridico tutelato può esercitare il proprio diritto di autodeterminazione in materia di salute.

Sotto il profilo strettamente giuridico non svolge pertanto alcuna funzione il consenso eventualmente prestato dai congiunti in caso di incoscienza del paziente (consenso al quale si ricorre, sovente, più per motivi etici).
Riferirsi ai prossimi congiunti può però assumere rilievo al fine di conoscere eventuali determinazioni precedentemente espresse dal paziente, ferma restando la possibilità per il sanitario di agire in caso di stato di necessità.

Per essere valido, il consenso deve provenire da soggetto capace sia legalmente che naturalmente.
Deve inoltre essere spontaneo e libero, cioè manifestato in assenza di coercizioni o interferenze. Solo una parte minore della dottrina ammette la validità di un consenso presunto o implicito (ad esempio nei casi di impossibilità di manifestare il consenso della persona in stato di incoscienza), mentre la tesi maggioritaria richiede che il consenso sia in ogni caso espresso.

Il consenso informato in caso di incapacità

Particolari problematiche si presentano al sanitario nel caso in cui il paziente non abbia capacità d’agire, vuoi perché minore di età, vuoi perché interdetto. Il consenso al trattamento terapeutico dei minori è tradizionalmente demandato ai genitori o, in mancanza, al tutore.
Negli ultimi decenni si è tuttavia assistito ad un progressivo ampliamento dell’area in cui il minore può esprimere la propria autonomia, specie in relazione all’esercizio dei suoi diritti fondamentali, con conseguente necessità di tenere in adeguata considerazione anche la sua volontà (in modo differenziato a seconda della età e del grado di maturazione psico-fisica) per gli interventi che lo riguardano.

Il consenso al trattamento per conto dell’interdetto spetta al tutore. Anche in riferimento a tale figura è sempre più sentita la necessità di dare rilevanza alla effettiva volontà del paziente, nei limiti in cui ciò appaia consentito dal suo effettivo stato e dalla sua reale capacità di discernimento.

In caso di dissenso al trattamento relativo a soggetti incapaci legalmente, al medico non resterà che fare riferimento alla competente autorità giudiziaria (tribunale per i minorenni ovvero giudice tutelare).
Ciò, naturalmente, salvo che vi siano i presupposti dello stato di necessità.
Allora l’intervento risulterà legittimato ex art. 54 c.p.

Il rifiuto delle cure

Ogni tipo di intervento su un paziente (capace) che abbia manifestato in modo esplicito il suo dissenso consapevole configura gli estremi di un illecito contro l’incolumità personale, perché, a prescindere dalla qualità di chi lo pratica e dalle finalità terapeutiche cui è ispirato, realizza una violenta manomissione della sfera fisica del soggetto passivo, contro la quale l’ordinamento giuridico, anche a livello costituzionale, ha voluto apprestare una diretta e consona tutela.

E’ naturalmente necessario che il medico verifichi se il paziente abbia espresso il rifiuto nella consapevolezza delle conseguenze negative derivanti dal suo atteggiamento.

La forma di espressione del consenso informato

Ai sensi dell’art. 32 del codice deontologico il consenso deve essere espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui lo richieda la particolarità delle prestazioni diagnostiche e terapeutiche ovvero le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica rendano opportuna una manifestazione inequivoca della persona.
In ogni caso, esso è integrativo e non sostitutivo del processo informativo.

A maggior ragione puntuale e rigorosa dovrà essere la documentazione dell’eventuale rifiuto alle cure, espressione del diritto del soggetto capace e consapevole di autodeterminarsi in materia di salute.

Riflessioni conclusive in tema di consenso informato

In conclusione, non può non rilevarsi come, dalle più recenti evoluzioni giurisprudenziali in tema di responsabilità medica, emerga un quadro complesso e, a tratti, sconfortante: l’operatore sanitario viene sempre più ad assumere la scomoda posizione di soggetto diviso tra il dovere di assicurare la salute del paziente e quello di renderlo edotto di tutti i rischi connessi ad interventi spesso complessi.
Se da un lato bisogna tenere presente che il consenso informato è il mezzo più importante a difesa dell’integrità fisica e psichica e dei diritti della personalità di ogni individuo, dall’altro non va dimenticato che l’operatore sanitario ha bisogno di direttive precise che possano guidarlo nella propria attività quotidiana.

Da più parti si auspica pertanto un intervento legislativo che si soffermi sul tema del consenso (e del dissenso) informato, focalizzando l’attenzione sui suoi profili civilistici e prevedendo una disciplina ad hoc che sollevi la dottrina e la giurisprudenza dallo sforzo di adattare il codice alla nuova sensibilità ed alle nuove esigenze maturate nella seconda metà del secolo (con risultati spesso insoddisfacenti).

Anche la equiparazione, dal punto di vista della sanzione penale, della condotta criminosa di un soggetto qualsiasi con quella di un rispettabile professionista incappato in un infortunio terapeutico meriterebbe una rimeditazione da parte del legislatore, come da più parti avvertito.
Per il momento, l’operatore sanitario non potrà fare altro che confidare sulla propria professionalità e sul proprio senso etico e morale.

Nell’affrontare le infinite fattispecie nelle quali verrà ad esplicare la propria funzione, egli dovrà tentare di bilanciare con attenzione gli interessi in gioco, non trascurando nessuna delle circostanze che caratterizzano il caso concreto ed tenendo ben a mente che la propria funzione non è quella di salvaguardare la vita e l’integrità fisica di ogni uomo in nome di un interesse superiore, bensì quella di cooperare, grazie alle proprie conoscenze specifiche, affinché ogni individuo malato possa decidere autonomamente se ed in che termini tutelare il proprio diritto fondamentale alla salute.

Il paziente deve essere cioè considerato in qualità non già di “oggetto” dell’attività medica, bensì di “soggetto” attivo nell’ambito del trattamento, e dunque contraddittore necessario in ogni momento significativo del percorso. Il tutto tenendo in ogni caso sempre conto anche della dignità umana e professionale del medico, il quale può dunque prediligere, secondo la sua esperienza e sensibilità, ovvero secondo scienza e coscienza, un’opzione rispetto alle altre, essendo chiamato alla compartecipazione con il paziente ma non vincolato al suo capriccio.

[*] L’approfondimento riproduce il testo integrale di un articolo comparso sulla Rivista medico-legale toscana “Codice Rosso” a firma dell’avv. Claudia Chiarini.

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