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La Responsabilità Sanitaria nel 2019: San Martino e le 10 nuove sentenze della Corte di Cassazione

Risarcimento Danni & Responsabilità Medica: “San Martino bis

Con 10 sentenze depositate -simbolicamente?- nella ricorrenza di San Martino (lo stesso giorno, undici anni fa, venivano depositate le motivazioni di Cass. SU, 11/11/2008, nn. 26972, 26973, 26974 e 26975), la Suprema Corte di Cassazione offre agli interpreti numerosi spunti di riflessione per una organica rielaborazione del quadro normativo in materia di responsabilità medico-sanitaria e risarcimento del danno, all’esito della ormai assimilata entrata in vigore della cd. legge “Gelli-Bianco” (l. n. 24/2017).

Si tratta delle importanti pronunce di Cass. III, 11/11/2019, dalla n. 28985 alla n. 28994, i cui tratti essenziali cercheremo approfondire, sinteticamente, in questo articolo.

 

Clicca qui per leggere l’articolo dell’Avv. Gabriele Chiarini su “Diritto24” del Sole24Ore

 

INDICE SOMMARIO

 

§ 1. I presupposti di risarcibilità del danno da violazione del “consenso informato” (Cass. III, 11/11/2019, n. 28985)

IL CASO

Una paziente aveva chiesto il risarcimento per aver sviluppato una patologia (mielopatia dorsale da radioterapia), quale conseguenza delle eccessive dosi di irradiazione della terapia radiante somministrata per trattare altra malattia di base (linfoma di Hodgking).
La Corte d’Appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato l’Istituto Oncologico al risarcimento dei danni, rilevando che non era stata fornita la prova liberatoria di cui all’art. 1218 c.c., ed anzi che sussisteva prova della colpa professionale dei Sanitari, per violazione del dovere di prudenza, che avrebbe imposto un dosaggio di irradiazione inferiore, in considerazione delle condizioni di salute della paziente.
La Struttura Sanitaria ha proposto ricorso per Cassazione.

I PRINCIPI

Nel ribadire che il concetto medico di “complicanza” è privo di rilievo sul piano giuridico, la Corte ha rigettato il ricorso proposto dall’Istituto Oncologico.

Poiché nella vicenda si controverteva anche in tema di “consenso informato“, la Cassazione -pur ritenendo carente di interesse il pertinente motivo di impugnazione- ha colto l’occasione per rivisitare sistematicamente l’istituto, dettando una serie di principi utili a risolvere le principali situazioni che possono presentarsi all’interprete.
In particolare, va premesso che -come noto- la violazione del dovere informativo può causare:

  1. un danno alla salute, quando risulti -mediante giudizio controfattuale- che il paziente, se correttamente informato, avrebbe rifiutato l’intervento;
  2. un danno da lesione del “diritto all’autodeterminazione”, purché si tratti di un pregiudizio di apprezzabile gravità.

Occorre poi distinguere secondo che l’omessa e/o insufficiente informazione sia relativa a un trattamento sanitario che:

  • ha cagionato danno alla salute per una CONDOTTA COLPOSA, ed allora, se risulta che il paziente, ove correttamente informato:
    • avrebbe comunque acconsentito all’intervento, il risarcimento sarà limitato al danno alla salute;
    • NON avrebbe acconsentito, il risarcimento comprenderà sia il danno alla salute sia il danno da lesione del “diritto all’autodeterminazione”;
  • ha cagionato danno alla salute per una per una CONDOTTA NON COLPOSA, se risulta che il paziente (correttamente informato) NON avrebbe acconsentito all’intervento, il risarcimento comprenderà il danno da lesione del “diritto all’autodeterminazione” e l’eventuale danno alla salute “differenziale” (tra lo stato conseguente all’intervento e quello preesistente);
  • NON ha cagionato danno alla salute, se risulta che il paziente (correttamente informato) avrebbe comunque acconsentito all’intervento, nessun risarcimento sarà dovuto;
  • NON ha cagionato danno alla salute del paziente, ma gli ha impedito indagini diagnostiche più accurate e/o attendibili, allora sarà risarcibile il danno da lesione del “diritto all’autodeterminazione”, in termini di contrazione della libertà personale e di sofferenza soggettiva provata dal paziente.

Grava sul paziente l’onere di provare che, se fosse stato correttamente informato, avrebbe rifiutato il trattamento sanitario. La prova, ad ogni modo, può essere fornita con ogni mezzo, ivi compreso il fatto notorio, le massime di comune esperienza, nonché le presunzioni.

Scarica la sentenza di Cass. III, 11/11/2019, n. 28985, Rel. Olivieri

 

§ 2. I criteri per la determinazione del danno differenziale da lesioni “concorrenti” (Cass. III, 11/11/2019, n. 28986)

IL CASO

Procedimento in materia di risarcimento del danno da incidente stradale: il danneggiato reclamava un danno (stimato ex se nella misura del 6,5% di I.P.), che aveva aggravato la sua condizione di invalidità conseguente ad altro e precedente sinistro (che gli aveva, a suo tempo, provocato una I.P. del 60%).
La Corte d’Appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado, aveva liquidato il danno calcolando la differenza tra il valore monetario della I.P. complessivamente residuata (66,5%) e quello della I.P. preesistente (60%).
La Compagnia Assicuratrice ha proposto ricorso per Cassazione.

I PRINCIPI

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla Compagnia Assicuratrice, richiamando innanzi tutto la separazione concettuale tra:

  • causalità materiale” (relazione tra la condotta e l’evento lesivo, funzionale all’imputazione di responsabilità) e
  • causalità giuridica” (relazione tra l’evento lesivo e le conseguenze pregiudizievoli, funzionale alla determinazione della misura del risarcimento).

Ciò premesso, la Cassazione -con estrema lucidità e chiarezza espositiva- distingue tra i casi di:

  • lesioni policrone coesistenti” (quando il danno riguarda una persona che ha già delle menomazioni, le quali però non interferiscono con i postumi concretamente prodotti dall’illecito):
    • contrariamente ad una -arcaica- opinione medico-legale, la I.P. NON deve essere ridotta e quindi il danno va liquidato come se si trattasse di persona sana;
  • lesioni policrone concorrenti” (quando le menomazioni preesistenti del danneggiato si aggravano in conseguenza dell’illecito):
    • si stima in punti percentuali la I.P. complessiva dell’individuo, e la si converte in valore monetario (a);
    • si stima in punti percentuali la I.P. teoricamente preesistente all’illecito, e la si converte in valore monetario (b);
    • si sottrae l’importo (b) dall’importo (a) e si ottiene così l’entità del risarcimento, salvo naturalmente il prudente uso dell’equità “correttiva”.

Perciò, esemplificativamente, se una persona -già invalida al 60%-  subisca un illecito che la faccia divenire invalida al 70%, avrà diritto al risarcimento del valore monetario di quel 10% che aggrava l’invalidità dal 60 al 70% (e non già dei primi 10 punti percentuali delle Tabelle in uso).
Del pari, un soggetto monocolo funzionale che abbia perso anche l’occhio sano dovrà vedersi risarcire la differenza tra il valore monetario della cecità bilaterale e quello della cecità monolaterale (e non già della mera perdita di un occhio).

Scarica la sentenza di Cass. III, 11/11/2019, n. 28986, Rel. Rossetti

 

§ 3. La ripartizione dell’onere risarcitorio tra Struttura e Medico (Cass. III, 11/11/2019, n. 28987)

IL CASO

Una paziente, scontenta degli esiti di alcuni interventi di mastectomia, aveva citato in giudizio un Chirurgo Plastico e la Clinica presso la quale questi l’aveva operata. Tribunale e Corte d’Appello avevano accolto la domanda e condannato in via solidale il Medico e la Struttura al risarcimento dei danni, affermando che non si potesse fare alcuna differenza -quanto alla graduazione delle colpe- tra chi aveva eseguito male l’intervento e chi avrebbe dovuto assicurare l’esecuzione da parte di un operatore idoneo.
La Clinica ha proposto ricorso per Cassazione.

I PRINCIPI

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla Clinica, richiamando il concetto di “rischio di impresa” della Struttura che -inevitabilmente- si avvalga della collaborazione, a qualunque titolo, di Operatori Sanitari per l’esercizio della propria attività (cuius commoda eius et incommoda).
Si è dunque affermato che la ripartizione interna dell’onere risarcitorio tra Struttura e Medico, anche in caso di accertata responsabilità colposa di quest’ultimo, va effettuata in pari quota, in applicazione del principio presuntivo di cui agli artt. 1298 e 2055 c.c., salva la prova (il cui onere grava sulla Struttura) dell’assorbente responsabilità del Medico, intesa come grave, straordinaria, soggettivamente imprevedibile ed oggettivamente improbabile malpractice.
Detto principio conserva validità tanto nel regime anteriore quanto in quello posteriore alla legge Gelli.

Scarica la sentenza di Cass. III, 11/11/2019, n. 28987, Rel. Porreca

 

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§ 4. La “personalizzazione” del risarcimento (Cass. III, 11/11/2019, n. 28988)

IL CASO

La Corte d’Appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato una Struttura Sanitaria e due Medici al risarcimento dei danni sofferti in occasione del parto, invero di modesta entità, da un minore e dalla madre, con contestuale accoglimento della domanda di manleva esperita verso la Compagnia Assicuratrice, la quale ha proposto ricorso per Cassazione.

I PRINCIPI

La Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto dall’Assicurazione sul quantum liquidato, specificando che la “personalizzazione” (in aumento) del risarcimento spettante alla vittima di un illecito si giustifica soltanto se le conseguenze dannose sofferte siano straordinarie ed eccezionali, poiché quelle ordinarie sono già espresse dalla valutazione tabellare del grado percentuale di I.P. accertato.

Con riguardo al danno da perdita della capacità lavorativa, richiamata la distinzione tra capacità lavorativa generica (la cui lesione genera un danno non patrimoniale) e capacità lavorativa specifica (la cui lesione genera un danno patrimoniale), la Corte fornisce i seguenti criteri per un inquadramento dogmatico delle varie fattispecie che possono verificarsi:

  • se la vittima conservi il reddito, ma lavori con maggior pena (cd. “cenestesi lavorativa“), si tratta di un danno non patrimoniale, da liquidare personalizzando in aumento la valutazione tabellare;
  • se la vittima abbia perso -in tutto o in parte- il proprio reddito da lavoro, si tratta di un danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare in base alle regole di questa categoria concettuale;
  • se la vittima non aveva un lavoro, e non potrà più averlo a causa del sinistro, anche in questo caso si tratta di danno patrimoniale da lucro cessante, con la precisazione che non può applicarsi il criterio del triplo della pensione -oggi assegno- sociale, poiché l’art 137 del Codice delle Assicurazioni Private (d.lg. n. 209/2005) è norma eccezionale (rectius: speciale) applicabile soltanto nell’ambito dell’azione diretta contro l’assicuratore.

Scarica la sentenza di Cass. III, 11/11/2019, n. 28988, Rel. Positano

 

§ 5. I.C.A. e danno da morte (Cass. III, 11/11/2019, n. 28989)

IL CASO

La vicenda riguarda il decesso di un paziente per infezione ospedaliera (da stafilococco aureo), per cui la Corte d’Appello di Roma aveva liquidato il risarcimento del danno in favore dei figli e del coniuge.
L’Azienda Sanitaria ha proposto ricorso per Cassazione.

I PRINCIPI

La Suprema Corte ha rigettato i motivi di ricorso sull’an della responsabilità sanitaria, accogliendo invece quelli relativi al quantum del risarcimento.

Innanzi tutto, in materia di I.C.A. (infezioni correlate all’assistenza), una volta che sia stata dimostrata (dal paziente o dai suoi congiunti) la riconducibilità causale del contagio al fatto della Struttura Sanitaria, spetta a quest’ultima -se vuole andare esente da responsabilità- dare la prova (invero assai difficile, se non davvero “diabolica”) che il proprio inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza.

Con riferimento al profilo liquidatorio, la Corte -richiamando l’orientamento delle sentenze di San Martino 2008- ribadisce che non può liquidarsi una somma ulteriore per “danno morale” (e tantomeno per “danno esistenziale”), in aggiunta al “danno da perdita del rapporto parentale“, poiché ciò costituirebbe indebita duplicazione risarcitoria.

Ancora, la pronuncia considera ammissibile il ricorso alla prova presuntiva in tutti i casi in cui il legame familiare debba considerarsi sufficientemente intenso da giustificare -fino a prova contraria- la sussistenza del danno da perdita del rapporto parentale, espressamente nominando le figure del coniuge, del convivente more uxorio, del figlio, del genitore, della sorella, del fratello, del nipote, dell’ascendente, dello zio e finanche del cugino, fatta naturalmente salva la libertà di dimostrare -purché rigorosamente- la sussistenza di un apprezzabile rapporto affettivo anche tra parenti più lontani o, addirittura, tra soggetti non legati da vincoli di sangue (ad es., figli  e genitori “acquisiti”).

Per la concreta determinazione del quantum risarcibile, merita di essere sottolineato l’esplicito riferimento ai criteri -che invero sono da tempo alla base delle Tabelle di Roma– della convivenza, della sopravvivenza di altri congiunti, dell’età delle parti del rapporto familiare perduto, nonché di ogni altra evenienza o circostanza che il prudente apprezzamento del Giudice sappia cogliere.

Infine, esclusa la risarcibilità ex se del danno non patrimoniale da perdita istantanea della vita (cd. “danno tanatologico”), resta confermata -nel caso in cui tra lesione e morte si interponga un lasso di tempo apprezzabile, ancorché breve- la necessità di riconoscere il cd. “danno terminale“, nella duplice accezione di danno biologico temporaneo, stricto sensu inteso, nonché di danno morale da lucida agonia o formido mortis.

Scarica la sentenza di Cass. III, 11/11/2019, n. 28989, Rel. Dell’Utri

 

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§ 6. L’applicazione immediata delle Tabelle previste dal Codice Assicurazioni Private (Cass. III, 11/11/2019, n. 28990)

IL CASO

La Corte d’Appello di Genova, riformando parzialmente la decisione di primo grado, aveva condannato una Struttura Sanitaria e alcuni Medici al risarcimento dei danni -di modesta entità (6% di I.P.)- sofferti da una bambina, in conseguenza di un errore nella diagnosi della patologia rara che la affliggeva (sindrome di Bartter, erroneamente interpretata come morbo di Hirschsprung).
I genitori della minore hanno proposto ricorso per Cassazione, reputando riduttivo l’importo liquidato, per la determinazione del quale si era fatto ricorso alla Tabella delle cd. lesioni micropermanenti di cui all’art. 139 d.lg. n. 209/2005 (Codice delle Assicurazioni Private).

I PRINCIPI

La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile -per difetto di specificità- il motivo di ricorso formulato in punto di “danno differenziale”, non avendo i ricorrenti sviluppato adeguatamente le relative argomentazioni, ed avendo omesso -in particolare- di specificare se e per quali ragioni intendessero rivendicare la sussistenza di lesioni policrone “concorrenti”, piuttosto che “coesistenti”, situazioni che (come già visto esaminando la sentenza di Cass. 28986/2019) producono conseguenze assai distinte sul piano risarcitorio.

E’ stato poi rigettato il motivo di ricorso fondato sulla pretesa “irretroattività” della disposizione di cui all’art. 3, comma 3, del decreto “Balduzzi” (d.l. n. 158/2012), confermata dall’art. 7, comma 4, della legge “Gelli” (l. n. 24/2017), che ha imposto di liquidare il danno da medical malpractice utilizzando le Tabelle di cui al C.A.P. in materia di sinistri stradali, assai riduttive rispetto a quelle di Milano. Va rammentato, ad ogni modo, che -ad oggi- risulta vigente la sola Tabella per le lesioni “micropermanenti” (sino al 9% di I.P.), perché non è stata ancora approvata quella dedicata alle “macropermanenti” (dal 10 al 100% di I.P.). A queste ultime, dunque, si continua -provvisoriamente?- ad applicare la Tabella di Milano.
In proposito, la Corte ha specificato che la norma sopravvenuta non ha modificato con efficacia retroattiva gli elementi costitutivi della responsabilità medico-sanitaria, ma si è limitata a definire l’ambito delle modalità di esercizio del potere di liquidazione equitativa del danno, attribuito al Giudice ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c.
Pertanto, essa è direttamente applicabile nel corso dei processi che non siano ancora definiti (salvo che si sia formato un giudicato interno sul quantum).

Scarica la sentenza di Cass. III, 11/11/2019, n. 28990, Rel. Olivieri

 

§ 7. L’onere della prova del nesso causale (Cass. III, 11/11/2019, n. 28991)

IL CASO

La Corte d’Appello di Firenze, in conformità alla decisione del Tribunale della stessa Città, aveva rigettato la domanda risarcitoria proposta dalla figlia di una paziente deceduta in ambito ospedaliero. In particolare, facendo proprie le osservazioni del C.T.U., i Giudici avevano ritenuto che -pur in presenza di qualche comportamento ipoteticamente colposo- non fosse stato possibile identificare con precisione la causa di morte, sì che non poteva reputarsi esistente il nesso di causa tra la condotta dei sanitari e il decesso.
La figlia della donna ha proposto ricorso per Cassazione.

I PRINCIPI

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo che non fosse stato assolto l’onere della prova del nesso causale (gravante sul preteso danneggiato).

Richiamando implicitamente la tradizionale (e per molti aspetti superata) distinzione tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”, la Cassazione premette che l’inadempimento del Medico (id est: la violazione delle leges artis) non possiede intrinseca ed imprescindibile attitudine causale alla produzione dell’evento lesivo, poiché l’aggravamento della situazione clinica del paziente ovvero l’insorgenza di nuove patologie potrebbero avere una eziologia diversa dalla -pur accertata- colpa professionale.

Pertanto, in materia di responsabilità medica (come in tutte le obbligazioni di diligenza professionale), resta la necessità di accertare la sussistenza del nesso di causalità (materiale) tra la condotta sanitaria e l’evento di danno. E l’onere della relativa prova incombe sul creditore-paziente, che può naturalmente assolverlo anche a mezzo di presunzioni. Una volta che il creditore-paziente abbia assolto il proprio onere, è il Medico-debitore a dover provare che l’esatta esecuzione della prestazione sia stata impossibile per una causa imprevedibile ed inevitabile.
Emerge, così, un duplice ciclo causale (attinente alla causalità materiale): il primo, relativo all’evento dannoso (a monte); il secondo, relativo all’impossibilità di adempimento (a valle).

Giova rammentare che questi principi in tema di onere probatorio assumono rilievo solo in ipotesi di causa rimasta ignota. Si tratta, dunque, di una regola residuale di giudizio, che determina l’esito del processo quando manchino evidenze istruttorie sufficienti a compiere un accertamento sulla eziologia del danno, fondato -com’è ampiamente noto- sulla regola civilistica della “probabilità relativa”.

Scarica la sentenza di Cass. III, 11/11/2019, n. 28991, Rel. Scoditti

 

§ 8. Ancora sull’onere della prova del nesso causale (Cass. III, 11/11/2019, n. 28992)

IL CASO

Sia la Corte d’Appello sia il Tribunale di Milano avevano rigettato la domanda proposta da un paziente, che chiedeva un risarcimento per sepsi assertivamente derivata da un intervento ortopedico (meniscectomia con artroprotesi di ginocchio). La C.T.U. esperita, invero, pare avesse esplicitamente escluso la sussistenza del nesso causale, benché l’incarico fosse stato affidato ad un solo Ortopedico, senza l’ausilio del Medico Legale o dell’Infettivologo. Ad ogni modo, si era reputato che la setticemia -per tempi e modi di apparizione- non fosse correlabile eziologicamente ai trattamenti chirurgici praticati.
Il (presunto) danneggiato ha proposto ricorso per Cassazione.

I PRINCIPI

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, riproponendo integralmente le argomentazioni ed i principi di cui alla precedente sentenza Cass. 28991/2019.

Scarica la sentenza di Cass. III, 11/11/2019, n. 28992, Rel. Scoditti

 

§ 9. La perdita di chances terapeutiche (Cass. III, 11/11/2019, n. 28993)

IL CASO

La Corte d’Appello di Milano aveva confermato la sentenza del Tribunale, della stessa sede, di rigetto della domanda risarcitoria proposta dai familiari di una paziente, deceduta a seguito di un intervento chirurgico per asportazione di un tumore al timo.
Risulta, in particolare, che la signora fosse morta in conseguenza di una lesione aortica, della quale non era stato possibile accertare l’eziologia iatrogena. Detta lesione aveva provocato una emorragia interna, diagnosticata e trattata in una tempistica non ottimale. Perciò, si dibatteva (anche) del risarcimento per la perdita delle chances di sopravvivenza che la paziente avrebbe avuto se, con una migliore vigilanza post-operatoria, il re-intervento chirurgico per trattare l’emorragia fosse stato anticipato di circa un’ora e mezza.
I congiunti della paziente hanno proposto ricorso per Cassazione.

I PRINCIPI

Premessa la dotta citazione dello scienziato francese Henri Poincaré, secondo il quale la chance rappresenterebbe soltanto “la misura della nostra ignoranza“, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Le effettive chances di sopravvivenza della paziente, nel caso oggetto di causa, sono state ritenute così labili ed inconsistenti, così indeterminabili in termini statistico-scientifici, da non poter assumere rilievo a fini risarcitori (bisogna, infatti, distinguere la concreta possibilità dalla mera speranza).

In linea generale (e nomofilattica), la sentenza precisa che l’evento di danno può consistere:

  • nella morte del paziente, quando la condotta colpevole l’ha cagionata, nel senso che le conclusioni del C.T.U. facciano ritenere al Giudice “più probabile” che una diversa condotta avrebbe consentito la guarigione del paziente;
    • in tal caso, va risarcito il danno da lesione del rapporto parentale sofferto dai familiari, oltre che l’eventuale danno terminale cagionato al paziente (e trasmesso agli eredi iure successionis);
  • nella significativa riduzione della aspettativa esistenziale del paziente (e/o peggiore qualità della stessa), quando si debba ritenere che la condotta colpevole ha cagionato non esattamente la morte del paziente, ma una sua anticipazione e/o un peggioramento della qualità di vita residua;
    • in tal caso, va risarcito il danno costituito dalla perdita anticipata della vita (e/o dalla sua peggiorata qualità), che è fattispecie diversa dalla perdita di chances;
  • nella perdita di chances di sopravvivenza del paziente, quando la condotta colpevole ha avuto come conseguenza un danno incerto, nel senso che le conclusioni del C.T.U. depongano per una insanabile incertezza rispetto all’eventualità di maggior durata della vita e/o di minori sofferenze;
    • in tal caso, vanno risarcite equitativamente le possibilità (chances) perdute -purché presentino la necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà e consistenza- in via equitativa e, aggiunge la Corte, “non necessariamente quale frazione eventualmente percentualistica del danno finale“.

Scarica la sentenza di Cass. III, 11/11/2019, n. 28993, Rel. Valle

 

§ 10. L’irretroattività della legge “Gelli” (e del decreto “Balduzzi”) in tema di responsabilità extracontrattuale dell’Operatore Sanitario (Cass. III, 11/11/2019, n. 28994)

IL CASO

Con doppia pronuncia conforme del Tribunale di Avezzano e della Corte d’Appello dell’Aquila, un Ginecologo era stato condannato al risarcimento del danno subito da un neonato affetto da gravi patologie neurologiche conseguenti a problematiche insorte al momento del parto, avvenuto nel dicembre 1992.
Al Sanitario veniva imputato, in particolare, di non aver seguito la paziente nell’ultimo trimestre di una gravidanza “difficile” e, specificamente, di non averle sconsigliato il ricovero -tre giorni prima della nascita- in una Casa di Cura privata (poi, a quanto pare, fallita), presso cui lo stesso Medico collaborava, non adeguatamente attrezzata (poiché priva della terapia intensiva e della rianimazione neonatale).
Il Ginecologo ha proposto ricorso per Cassazione, rivendicando l’applicazione della normativa sopravvenuta di cui al decreto “Balduzzi” (d.l. n. 158/2012), e alla  legge “Gelli-Bianco” (l. n. 24/2017), con riguardo alla qualificazione della responsabilità dell’Operatore Sanitario in termini extracontrattuali (piuttosto che contrattuali, da “contatto sociale”).

I PRINCIPI

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, segnalando innanzi tutto che -secondo la lettura giurisprudenziale prevalente- il decreto Balduzzi non aveva affatto configurato la responsabilità del Medico come extracontrattuale. Soltanto la legge Gelli, infatti, ha superato il “diritto vivente” che, a far data dal 1999, aveva qualificato come di natura contrattuale la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria (facendo leva sulla teorica del cd. “contatto sociale”).

Ad ogni modo, è stato affermato il principio di diritto per cui le norme sostanziali contenute (nel decreto Balduzzi e) nella legge Gelli non hanno portata retroattiva, e non possono applicarsi ai fatti avvenuti in epoca precedente alla loro entrata in vigore, diversamente da quelle che -richiamando gli artt. 138 e 139 del C.A.P. (d.lg. n. 209/2005) in punto di liquidazione del danno- sono di immediata applicazione anche ai fatti pregressi, come meglio specificato dalla coeva sentenza di Cass. n. 28990/2019.

La pretesa retroattività di tali disposizioni, infatti, verrebbe ad interferire con il potere ordinariamente riservato al Giudice di interpretare i fatti e qualificarli giuridicamente, e giungerebbe inammissibilmente ad incidere -seppur indirettamente- sui singoli processi in itinere, con evidente lesione dell’affidamento di chi abbia intrapreso una azione giudiziaria fondata sulla regola della responsabilità contrattuale del Medico da “contatto sociale”, che costituiva -prima della legge Gelli- vero e proprio “diritto vivente”.

Scarica la sentenza di Cass. III, 11/11/2019, n. 28994, Rel. Valle

 

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