COMPLICANZA - MedMal Words - Avv. Gabriele Chiarini

Complicanza medica: cos’è e come distinguerla dalla malasanità

Ultimo Aggiornamento 28 Gennaio 2025

Nei comuni dizionari della lingua italiana, la parola “complicanza” spesso neppure compare. Quando c’è, si dice che è un sinonimo di “complicazione” e, tutt’al più, si precisa che ha uno specifico rilievo in ambito sanitario.

Il fatto è che, nella letteratura scientifica sanitaria, le complicanze sono un eventi dannosi che insorgono in un momento qualsiasi dell’iter terapeutico e che la medicina tende a considerare imprevedibili e inevitabili.

Ma è proprio così dal punto di vista giuridico? E quali sono il rilievo e l’utilità del concetto di “complicanza” per il diritto? Quand’è che un evento avverso configura complicanza, e quando – invece – si tratta di “malasanità“? Scopriamolo in questo approfondimento.

§ 1. Cos’è una “complicanza”

Nel linguaggio medico una complicanza è un evento accidentale o anomalo che si verifica nel decorso di una malattia o successivamente a un trattamento sanitario, aggravando la situazione del paziente e peggiorando le sue possibilità di recupero con l’insorgenza di uno stato morboso ulteriore ancorché in qualche modo collegato o favorito dalla condizione di partenza e dalle cure praticate.

Le complicanze, dunque, sono evoluzioni indesiderate del quadro clinico di un paziente. Possono essere determinate dalla sua condizione o dall’intervento medico, oppure da entrambi congiuntamente. Configurano quelli che, nella teoria del risk management, vengono considerati “eventi avversi”, mentre, in ambito giuridico, le complicanze rappresentano “eventi di danno”.

Facciamo qualche esempio.

Abbiamo un po’ di artrosi, qualche difficoltà a camminare o ad alzarci dalla poltrona, e ci lasciamo convincere dall’ortopedico che consiglia un intervento chirurgico di protesi d’anca, da praticare magari in una clinica privata; all’esito, ci ritroviamo con una lesione del nervo sciatico, solo parziale (se siamo fortunati), ma tale da imporre un lungo periodo di recupero, con esiti peraltro difficilmente prevedibili.

Oppure, ci ricoveriamo per operarci al cuore: una delicatissima sostituzione valvolare; l’intervento riesce bene, benissimo, la riabilitazione cardiologica procede secondo il protocollo; quand’ecco, si scopre che abbiamo contratto una infezione correlata all’assistenza sanitaria, sostenuta da batteri altamente resistenti agli antibiotici, che molto spesso ha esiti letali.

O, ancora, abbiamo un problema di obesità e, per risolverlo, ci sottoponiamo a chirurgia bariatrica, ma andiamo incontro a una perforazione della parete gastrica, che può facilmente ingenerare peritonite con grave rischio di mortalità.

§ 2. Complicanze spontanee e complicanze iatrogene

Come si diceva, le complicanze possono dipendere dalla patologia di base del paziente, rappresentandone – diciamo così – una naturale progressione (in questo caso parliamo di complicanze “spontanee”), oppure possono essere determinate dal trattamento sanitario che gli viene praticato (e allora parliamo di complicanze “iatrogene”).

A volte, poi, le complicanze derivano un po’ da entrambe le cose: dalla malattia e da quello che il medico cerca di fare per curarla. Ma, in ogni caso, si tratta di evoluzioni indesiderate del quadro clinico, che aggravano la condizione del paziente e peggiorano la sua prognosi.

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§ 3. Tipologie di complicanze

Ci sono molti tipi di complicanze: possiamo distinguerle, ad esempio, in base alla:

  • gravità (complicanze maggiori o minori);
  • ricorrenza statistica (frequenti o rare);
  • tempistica con cui si presentano (precoci o tardive);
  • e a tanti altri criteri, come la modalità attraverso la quale si realizzano, la natura delle conseguenze che ne derivano, o anche il distretto anatomico interessato (complicanze meccaniche, ischemiche, infettive, perforative, emorragiche, respiratorie, articolari, e – davvero! – chi più ne ha più ne metta…).

Si considera complicanza, a mero titolo esemplificativo, la perforazione intestinale a seguito di colonscopia, l’endocardite protesica in cardiochirurgia, la trombosi dopo cateterizzazione venosa, la lesione tendinea nella chirurgia per la sindrome del tunnel carpale, la stenosi anale dopo emorroidectomia, la lussazione dopo artroprotesi d’anca, la deiscenza della linea di sutura nella chirurgia bariatrica, l’infezione (locale o sistemica) successiva praticamente a qualsiasi intervento invasivo ovvero anche soltanto alla degenza nosocomiale, e molte altre.

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Complicanze vs malasanità: leggi l’articolo dell’avv. Gabriele Chiarini su Italia Oggi!

§ 4. Le complicanze per il diritto

E la legge? Cosa ne pensa, la legge, della complicanza?

Beh, per quanto strano possa sembrare, la nozione di “complicanza” non interessa direttamente ai giuristi.

Quella che il medico chiama “complicanza”, per l’uomo di legge è solo un “fatto”, e il diritto si occupa dei fatti per valutare se sono leciti oppure illeciti, cioè per capire se qualcuno deve risponderne, ed eventualmente chi sia questo qualcuno, per quale violazione ne deve rispondere, con quali conseguenze, ed entro quali limiti.

§ 5. Il ruolo della prevedibilità e dell’evitabilità

Ma come facciamo a dire se una complicanza è un fatto lecito oppure illecito? Come facciamo a distinguere le complicanze che danno luogo a responsabilità da quelle che non lo fanno? Dobbiamo verificare se ricorrono due presupposti:

  1. la prevedibilità, che è la capacità di riconoscere un pericolo di danno, e
  2. l’evitabilità, che è la possibilità di neutralizzarlo, questo danno.

Se la complicanza era prevedibile ed evitabile, allora c’è verosimilmente un fatto illecito, che è fonte di responsabilità sanitaria. Al contrario, se la complicanza non era prevedibile o non era evitabile, non può essere imputata a nessuno, perché rientra nella normale “alea terapeutica”: quella componente di incertezza che accompagna ogni atto sanitario.

§ 5.1 Prevedibilità delle complicanze

Ora, a ben vedere, le complicanze non sono mai del tutto imprevedibili.

Il fatto stesso che siano annoverate in statistica, e che sia possibile stimare in maniera piuttosto precisa quali siano le percentuali di rischio correlate a una determinata vicenda clinica, in realtà, dimostra inequivocamente che le complicanze sono eventi assolutamente prevedibili, ancorché sgraditi.

§ 5.2 Le complicanze sono evitabili oppure no?

Il punto è, allora, capire se siano davvero inevitabili, queste complicanze.

Proprio su questo nodo problematico le posizioni di medicina e diritto iniziano a divergere.

Per la medicina, infatti, le complicanze sarebbero inevitabili, perché nessun intervento chirurgico – si sa – è completamente esente da rischi.

Per il diritto, invece, il concetto stesso di “complicanza” risulterebbe inutile: al giurista – come, del resto, al singolo paziente – non interessa sapere se l’evento dannoso rientri nella classificazione clinica delle complicanze, oppure no, perché ciò che conta è il fatto concreto oggetto di giudizio, la specifica vicenda clinica, nella sua irripetibile unicità, piuttosto che l’astratta statistica.

§ 5.3 L’onere della prova in tema di evitabilità di una complicanza

E siccome, si sa, la salute si tutela (o si dovrebbe tutelare) in ospedale, ma la giustizia si amministra in tribunale, l’opinione del giurista risulta, di fatto (e di diritto), prevalente rispetto a quella del medico.

Dunque, come insegna la Suprema Corte, in caso di peggioramento del paziente correlato a un intervento sanitario, bisogna indagare se quel peggioramento era – in concreto, e non in astratto – evitabile oppure no:

  • Se era evitabile, esso va ascritto a colpa della struttura sanitaria, a nulla rilevando che la statistica clinica lo annoveri in linea teorica tra le “complicanze”.
  • Se evitabile non era, esso integra gli estremi della causa non imputabile di cui all’art. 1218 c.c., che scagiona la struttura da responsabilità anche se – per ipotesi – non sia contemplato dai manuali come “complicanza”.

Da ciò consegue, sul piano della prova, che è onere della struttura sanitaria dimostrare che l’evento avverso era – nel caso concreto – del tutto inevitabile, e che pertanto il danno si è prodotto nonostante la perfetta adesione alle leges artis.
Se tale prova, la struttura, non riuscisse a darla, andrà incontro a responsabilità risarcitoria, a nulla rilevando che il danno sofferto dal paziente rientri o no nella categoria teorica delle “complicanze”.

§ 5.4 Tutto bene, “salvo complicanze”

Ad ogni modo, per quella stessa alea terapeutica, sempre imponderabile, che si annida in tutte le vicende cliniche, una regola (non scritta) di comune prudenza suggerisce di aggiungere alla fine di qualunque prognosi, per quanto benevola, quelle due letterine, “s.c.”, che significano, per l’appunto, salvo complicazioni, o complicanze, che dir si voglia

L’acronimo “s.c.” (salvo complicanze), infatti, viene spesso utilizzato in ambito medico per indicare che un determinato esito, prognosi o decorso è previsto in condizioni normali, senza l’insorgenza di eventi avversi o problematiche impreviste.

L’espressione sottolinea che, pur nel rispetto delle procedure e delle buone pratiche cliniche, esiste sempre la possibilità che si verifichino complicazioni, legate alla variabilità individuale del paziente o a fattori non controllabili. Si tratta, dunque, di una forma di cautela e trasparenza nella comunicazione medico-paziente, poiché evidenzia i limiti intrinseci di ogni intervento sanitario, senza creare false aspettative.

Guarda l’episodio di “MedMal WORDS | Le parole della responsabilità sanitaria” dedicato alla COMPLICANZA!

La medicina è una scienza imperfetta: si basa su informazioni imprecise e su individui che possono sbagliare proprio quando la vita delle persone è in pericolo.

A. Gawande, Salvo complicazioni