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Consenso Informato e Danno Risarcibile (Giur. It.)

Il medico (ir)responsabile e il paziente (dis)informato. Note in tema di danno risarcibile per intervento terapeutico eseguito in difetto di consenso

L’autore commenta la sentenza di Cass. III, 9 febbraio 2010, n. 2847, che è intervenuta nell’articolato panorama giurisprudenziale della responsabilità medico-sanitaria, delineando interessanti regole di giudizio in tema di danno conseguente a un intervento terapeutico effettuato — pur secondo le leges artis — in mancanza del c.d. “consenso informato”.

 

Indice Sommario

  1. Brevi considerazioni preliminari.
  2. Dal “consenso informato” al “consenso consapevolmente prestato”. Informazione e consenso nel codice di deontologia medica.
  3. Fondamento e ruolo del consenso, quale presupposto di liceita` dell’atto medico.
  4. L’unitarietà del rapporto medico-paziente. La non condivisibile riconduzione eziologica del danno all’omissione dell’informazione o dell’acquisizione del consenso, piuttosto che all’atto medico eseguito in difetto di consenso. Dall’(in)adempimento all’(in)attuazione del rapporto obbligatorio.
  5. Osservazioni conclusive. Danno risarcibile e compensatio lucri cum damno.

1. Brevi considerazioni preliminari.

La decisione che si annota interviene nell’articolato panorama giurisprudenziale della responsabilità medico-sanitaria, delineando interessanti regole di giudizio in tema di danno conseguente a un intervento terapeutico effettuato – pur secondo le leges artis – in mancanza del cd. “consenso informato”.

In sostanza, la Cassazione scevera il diritto alla salute da quello all’autodeterminazione del paziente, ed individua il presupposto della risarcibilità del pregiudizio conseguente alla lesione del primo (diritto alla salute) nell’accertamento che l’intervento sarebbe stato rifiutato se il paziente stesso – sul quale grava il relativo onere probatorio – fosse stato adeguatamente informato dei possibili rischi e posto, quindi, in condizione di esprimere un valido consenso.

La violazione del secondo (diritto all’autodeterminazione), invece, potrebbe dar luogo a risarcimento in tanto in quanto le conseguenze dannose di natura non patrimoniale – costituite non solo dal turbamento e dalla sofferenza patiti, ma anche dagli ipotetici «pregiudizi che il paziente avrebbe alternativamente preferito sopportare nell’ambito di scelte che solo a lui è dato di compiere» – siano di apprezzabile gravità.

Viene così esplicitamente contraddetto l’orientamento, sinora largamente incontestato, a mente del quale «la responsabilità del sanitario (e, di riflesso, della struttura per cui egli agisce) per violazione dell’obbligo del consenso informato discende dalla tenuta della condotta omissiva di adempimento dell’obbligo di informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente venga sottoposto e dalla successiva verificazione, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa, di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente […]», con la conseguenza che il danno costituito dal peggioramento della salute e dell’integrità fisica del paziente andrebbe integralmente risarcito a prescindere dalla constatazione che il trattamento sia stato effettuato correttamente oppure no.

La chiave di volta di siffatto revirement viene individuata nella ponderazione del collegamento eziologico tra la condotta (omissiva, per difetto di informazione) del sanitario e le conseguenze pregiudizievoli che possano dirsi da essa derivate, profilo che – ritiene la pronuncia in commento – non risulterebbe sino ad oggi «scrutinato ex professo».

La sentenza, di sicuro interesse per la portata innovativa dei princìpi enucleati, si caratterizza per l’intento dichiaratamente ricostruttivo – in chiave quasi didattica – dell’argomento in parola. Residuano, nondimeno, talune perplessità giacché, come si tenterà di illustrare nel prosieguo, la soluzione cui la Corte perviene non sembra conciliare in maniera del tutto convincente la tassativa dicotomia salute-autodeterminazione, su cui si fonda il percorso argomentativo tracciato, con la pur affermata consapevolezza dell’unitarietà del rapporto medico-paziente.

 

2. Dal “consenso informato” al “consenso consapevolmente prestato”. Informazione e consenso nel codice di deontologia medica.

Come rileva condivisibilmente la Suprema Corte, la locuzione corrente “consenso informato” andrebbe dismessa e sostituita con quella – più propria – “consenso consapevolmente prestato”, giacché “informato” non è il consenso, ma deve esserlo il paziente che lo presta.

Sotto questo profilo, allora, parlare di “informazione e consenso” piuttosto che di “consenso informato” non integra il ricorso ad una endiadi, ma rappresenta una scelta lessicale conforme all’esigenza di individuare due distinti elementi della medesima fattispecie. Altro è, infatti, l’informazione, che costituisce oggetto di una obbligazione – accessoria rispetto a quella principale di eseguire l’intervento terapeutico – del medico nei confronti del paziente; altro il consenso di quest’ultimo, che vale a rimuovere – se ed in quanto efficace, ovverosia consapevole perché preceduto dalla doverosa informazione – il limite costituito dall’ordinaria intangibilità della sfera personale altrui.

Non è un caso, del resto, se lo stesso codice di deontologia medica dedica il capo quarto del titolo terzo – per l’appunto – agli argomenti «Informazione e consenso», dettando disposizioni che, invero, ben sintetizzano il nucleo fondamentale dei princìpi giuridici applicabili alla materia in esame.

In particolare, l’art. 33 (rubricato «Informazione al cittadino») stabilisce che «Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate»; chiarisce poi che «Il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche»; precisa inoltre che «Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta».

L’art. 35 (rubricato «Acquisizione del consenso») prevede che «Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente»; puntualizza che «Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione documentata della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 33»; specifica che «In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona».

L’art. 36 (rubricato «Assistenza d’urgenza») sancisce, infine, che «Allorché sussistano condizioni di urgenza, tenendo conto delle volontà della persona se espresse, il medico deve attivarsi per assicurare l’assistenza indispensabile».

 

3. Fondamento e ruolo del consenso, quale presupposto di liceità dell’atto medico.

E’ fin troppo noto per dover essere rammentato il fondamento costituzionale del consenso all’atto medico. In linea col principio personalistico che informa il nostro ordinamento, viepiù valorizzato dalla riforma sanitaria del 1978 ad oggi, la nostra Carta riconosce, invero, il diritto e la libertà, per ciascun individuo, di autodeterminarsi in materia di salute (artt. 2, 13 e 32 cost.).

La regola nel rapporto medico-paziente deve dunque essere la consensualità, mentre i trattamenti sanitari obbligatori sono l’eccezione, come solennemente recita l’art. 5 della Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina, conclusa a Oviedo il 4 Aprile 1997, ratificata in Italia con la legge n. 145 del 28 marzo 2001.

Ma che cosa è questo “consenso informato”?

L’etimologia del termine – consenso deriva da cum-sentire: percepire insieme – suggerisce una “comunione di intenti”, ovverosia l’esser concordi sul modo di vedere una determinata questione (clinica, nel caso della prestazione sanitaria).

Il consenso rappresenta, quindi, la condivisione, da parte del paziente, della scelta terapeutica che il medico gli prospetta. Il che, naturalmente, può avvenire soltanto all’esito del processo conoscitivo che è alla base della “alleanza terapeutica” tra medico e paziente, giacché non si può consentire a ciò che non si conosce.

Se così è, si comprende agevolmente il motivo per cui continui ad esser riproposta la risalente e tralatizia affermazione secondo la quale il consenso consapevolmente prestato dal paziente rappresenta un presupposto della liceità dell’atto medico.

L’assunto è, del resto, confermato dalla stessa decisione che si annota, ancorché precisi di ritenere riduttiva la constatazione che, «essendo illecita l’attività medica espletata senza consenso, per ciò stesso il medico debba rispondere delle conseguenze negative subite dal paziente che il consenso informato non abbia prestato».

Anche la giurisprudenza penale, pur redarguendo sull’inopportunità di confondere il consenso all’atto medico con l’istituto del “consenso dell’avente diritto” di cui all’art. 50 c.p., non esita a riconoscere l’ordinaria antigiuridicità dell’atto sanitario eseguito in mancanza di consenso. Tanto ciò vero che, al fine di giustificare l’intervento terapeutico praticato su paziente incapace di esprimere il proprio assenso (ad es. perché incosciente oppure obnubilato per le più varie ragioni), continua a ricorrere alla figura dello “stato di necessità”, contemplata dall’art. 54 c.p. e dall’art. 2045 c.c. come causa di esclusione dell’antigiuridicità della condotta.

Dunque, quando il sanitario si trovi di fronte alla necessità di salvare (sé od) altri – cioè a dire, il paziente – dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, tale stato di necessità vale ad elidere l’illiceità altrimenti inevitabile dell’atto medico, giustificandolo pur in mancanza di un consenso del paziente (sempre che quest’ultimo non abbia manifestato o non sia altrimenti conoscibile un suo espresso dissenso consapevole ed attuale).

Ora, il condivisibile riconoscimento del consenso quale presupposto di liceità dell’atto medico non equivale, tuttavia, ipso facto all’affermazione indiscriminata dell’illiceità dell’atto medico eseguito senza consenso: per potersi trarre tale ultima inferenza, invero, deve essere vagliata la sussistenza di tutti i presupposti dell’illiceità, la quale non è altro – come rammenta la sentenza annotata – che una qualificazione giuridica successiva della fattispecie.

In particolare, se appare sufficientemente certo che l’intervento sanitario in difetto di consenso integri un fatto (doloso o colposo) potenzialmente idoneo ad arrecare un danno, sì come è parimenti indubitabile che tale danno – in quanto effettivamente sussistente – si caratterizzi per l’ingiustizia, tutt’altro che scontato è il profilo del nesso causale.

Ad esso – centrale, come si è visto, nella pronuncia qui in discussione – sarà opportuno dedicare alcune più approfondite riflessioni.

 

4. L’unitarietà del rapporto medico-paziente. La non condivisibile riconduzione eziologica del danno all’omissione dell’informazione o dell’acquisizione del consenso, piuttosto che all’atto medico eseguito in difetto di consenso. Dall’(in)adempimento all’(in)attuazione del rapporto obbligatorio.

Come si è accennato, la Corte muove dal presupposto che la giurisprudenza pregressa non abbia esaustivamente ponderato il problema specifico relativo alla sussistenza del nesso causale, la quale andrebbe indagata non «solo in relazione al rapporto di consequenzialità tra intervento terapeutico (necessario e correttamente eseguito) e pregiudizio della salute», bensì piuttosto «in relazione al rapporto tra attività omissiva del medico per non aver informato il paziente ed esecuzione dell’intervento».

Il relativo onere probatorio, per inciso, competerebbe al paziente, con la (sola) consolazione di poterlo assolvere anche in via presuntiva.

L’assunto non pare integralmente persuasivo.

Invero, l’accertamento del nesso causale postula la valutazione circa l’idoneità del fatto ad esser causa del danno, che ne costituisce effetto, al fine di accertare se tra essi possa dirsi sussistente un rapporto di consequenzialità.

Non sembra, tuttavia, condivisibile identificare i termini di siffatta relazione nell’omessa informazione (supposta causa) e nell’intervento effettuato (preteso effetto).

Con riguardo al danno (effetto), in particolare, esso non può senz’altro essere ravvisato nella “esecuzione dell’intervento”, quasi che il pregiudizio possa essere costituito dall’intervento stesso e non invece, com’è perspicuo, dalle conseguenze negative che eventualmente ne siano derivate.

Quanto alla causa (fatto), poi, la decisione in commento reputa di individuarla nella specifica violazione imputabile al sanitario, focalizzando l’attenzione in via esclusiva sulla condotta omissiva del medico che non abbia informato il paziente (o non ne abbia raccolto il consenso).

Sia consentito, tuttavia, di osservare che, in tal guisa, si effettua una scissione artificiosa di quel rapporto medico-paziente, del quale pur si riconosce l’unitarietà.

Il paziente, invero, non è creditore di due distinte prestazioni: una di contenuto informativo, l’altra avente ad oggetto l’esecuzione dell’intervento. Del pari, il sanitario non è obbligato ad informare, da una parte, e ad operare, dall’altra parte.

Informazione ed intervento terapeutico sono entrambi contenuti ineludibili ed inseparabili del medesimo rapporto obbligatorio, per il tramite del consenso, che non è fine a sé stesso, ma trae efficacia dalla prima (l’informazione) e vale a legittimare il secondo (l’intervento).

Si tratta, del resto, di una constatazione in linea con l’ormai acquisita consapevolezza che l’ottica che riguarda l’adempimento come semplice atto-finale determinante l’estinzione dell’obbligazione si rivela insufficiente, dovendosi adottare un’impostazione diversa, tesa a considerare tutto l’arco di problematiche connesse all’“attuazione del rapporto obbligatorio”.

Ecco che, allora, in questa prospettiva, l’antecedente causale del rapporto eziologico oggetto di indagine non può essere riduttivamente identificato nell’omissione in sé stessa considerata, la quale si inserisce invece nel più ampio contesto della condotta costituente inadempimento dell’obbligazione (rectius: inattuazione del rapporto obbligatorio).

Se così è, non sembra condivisibile l’introduzione – ad opera della sentenza in commento – di una pretesa “valutazione controfattuale ipotetica” che, di fatto, addossa al paziente l’onere probatorio (potenzialmente assai gravoso) di dimostrare che, in caso di corretta informazione, egli avrebbe rifiutato l’intervento terapeutico.

Come è stato anche recentemente riaffermato, d’altronde, il nesso causale «deve sussistere non già tra l’errore e il danno, ma tra la condotta ed il danno», con la conseguenza che è opportuno tenere logicamente ben distinti i profili della responsabilità: altro è l’accertamento del fatto e della sua rimproverabilità, altro è la valutazione del nesso causale tra il fatto ed il pregiudizio che ne consegue.

In sostanza, il nesso di causalità deve essere individuato nella relazione probabilistica concreta tra la condotta del medico (id est: l’esecuzione dell’intervento in difetto di consenso) e l’evento dannoso che ne sia conseguito. Il relativo accertamento «si distingue dall’indagine diretta all’individuazione delle singole conseguenze dannose (finalizzata a delimitare, a valle, i confini della già accertata responsabilità risarcitoria)».

All’ultima delle tematiche accennate – vale a dire quella concernente il danno risarcibile – si dedicherà il paragrafo, conclusivo, che segue.

 

5. Osservazioni conclusive. Danno risarcibile e compensatio lucri cum damno.

Beninteso, l’esigenza che la Corte mira a salvaguardare nella pronuncia in discorso è chiara e, tutto sommato, condivisibile: si tratta di circoscrivere l’area del danno risarcibile in guisa tale da assicurare ristoro soltanto ai pregiudizi effettivamente cagionati dall’atto medico colpevole.

Sgombrando il campo dagli equivoci che alcuni arresti giurisprudenziali avrebbero potuto ingenerare, infatti, l’intento è quello di chiarire che debbono restare a carico del paziente le conseguenze che costituiscano ordinario sviluppo della sua patologia o siano comunque altrimenti inevitabili.

Il percorso logico seguìto non è, tuttavia, condivisibile per le ragioni sin qui illustrate. Del resto, se il punctum dolens è rappresentato dalla quantificazione dei danni, è su tale piano – e non su quello, tutt’affatto distinto, dell’accertamento della responsabilità – che debbono essere affrontate e risolte le problematiche ad essa correlate, mediante la corretta identificazione dei pregiudizi effettivamente risarcibili.

Sotto questo profilo, va anzitutto sottolineato che, secondo le regole generali, il creditore non può ottenere dal risarcimento vantaggi superiori a quelli in cui consisteva la sua situazione precedente l’inadempimento e non sono risarcibili i pregiudizi cui il danneggiato sarebbe stato comunque esposto.

E’ chiaro, pertanto, che non possa trovare ristoro la diminuzione dell’integrità fisica inevitabilmente determinata da un intervento demolitorio che si riveli obiettivamente necessario (si pensi all’asportazione – tipico il caso di patologie oncologiche – di tessuti irrimediabilmente compromessi).

Una paziente sottoposta, senza consenso, ad isterectomia per un tumore in stadio avanzato non potrà, dunque, vedersi risarcire il danno alla salute conseguente alla privazione dell’utero, giacché ella sarebbe stata destinata in ogni caso a perdere tale organo (senza alcun bisogno di indugiare in “accertamenti controfattuali” circa l’ipotetica volontà che avrebbe assunto in caso di corretta informazione).

D’altra parte, le conseguenze dell’atto medico debbono misurarsi con la complessiva situazione clinica di chi lo sopporta, sì che non può ravvisarsi pregiudizio alla salute là dove l’intervento chirurgico, eseguito lege artis (pur senza consenso) al fine di contrastare una determinata patologia, l’abbia effettivamente risolta ed abbia perciò comportato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute del paziente, lungi dal determinarne una compromissione dell’assetto funzionale.

In ogni caso, quand’anche dall’intervento siano derivati tanto la risoluzione della patologia (ed il conseguente miglioramento delle condizioni di salute relativamente a tale aspetto), quanto una contestuale lesione dell’integrità sotto altro profilo (ad esempio, per il verificarsi di rischi connaturali all’operazione eseguita), la liquidazione del pregiudizio alla salute – da compiersi, naturalmente, con valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. – andrebbe effettuata tenendo in considerazione non già la sola lesione procurata, bensì la complessiva variazione dell’integrità fisica del paziente.

Invero, laddove al medesimo atto illecito (l’intervento eseguito in difetto di consenso) conseguano in via diretta ed immediata sia un beneficio sia un danno per l’integrità del paziente, risulterebbe ingiustificato – a prescindere, vale la pena di ripetere, da “valutazioni controfattuali ipotetiche” – liquidare integralmente la perdita determinata dal danno senza considerare il vantaggio connesso al beneficio.

Il principio generale della compensatio lucri cum damno, infatti, impone la necessità di una valutazione comparativa tra la situazione precedente l’atto sanitario e quella ad esso successiva, di guisa che soltanto se – e nella misura in cui – sia ravvisabile un effettivo peggioramento delle condizioni generali del paziente potrà dirsi esistente un danno alla salute.

Così, per tornare al caso esaminato dalla pronuncia in commento, il danno alla salute sofferto dal soggetto cui sia stato praticato un intervento chirurgico per cataratta con asportazione del cristallino (non preceduto, tuttavia, da un consenso consapevolmente prestato per difetto di informazione sui connessi rischi), non può essere commisurato esclusivamente alla compromissione causata dall’insorgenza di una cheratite corneale bollosa (costituente realizzazione dei suddetti rischi).

In realtà, le conseguenze negative delle complicanze verificatesi debbono essere contemperate con quelle utili determinate dalla pur corretta esecuzione dell’operazione, ai fini della determinazione di un “valore assoluto” di variazione dell’integrità psico-fisica, che dovrà guidare il giudice nella liquidazione equitativa del pregiudizio alla salute.

Vale la pena di precisare, ad ogni modo, che risulta sovente assai arduo discernere – nel novero dei pregiudizi conseguenti a un atto sanitario eseguito in difetto di consenso – quelli effettivamente riconducibili alla violazione del diritto all’integrità psico-fisica, all’autodeterminazione ovvero ad altri interessi di rilevanza costituzionale.

Invero, il paziente operato per un carcinoma alla prostata, destinato con grande probabilità a soffrire per tutta la vita di impotenza ed incontinenza, subisce una lesione che si ripercuote inevitabilmente su molteplici aspetti della sua sfera personale, ivi inclusi il profilo sessuale e quello relazionale.

Non a caso, la stessa decisione in commento prende in considerazione «il caso in cui alla prestazione terapeutica conseguano pregiudizi che il paziente avrebbe alternativamente preferito sopportare (rectius: scongiurare) nell’ambito di scelte che solo a lui è dato di compiere».

Pur rivolgendosi (in una esemplificazione dichiaratamente non esaustiva) ad aspetti estranei alla salute strettamente intesa, si tratta, invero, di riconoscere il predominio della libertà individuale e, conseguentemente, di affermare la risarcibilità – con le limitazioni sopra precisate – di ogni danno conseguente alla sua violazione diretta od indiretta.

Del resto, la necessità di una liquidazione unitaria del danno non patrimoniale si rivela in linea con l’insegnamento giurisprudenziale – ormai solo relativamente recente – secondo cui tale figura rappresenta una categoria generale, non suscettiva di distinzioni o partizioni se non a scopo meramente descrittivo.

Trova conferma, in quest’ottica, l’inopportunità della perentoria scissione tra lesione alla salute e lesione all’autodeterminazione, prospettata dalla pronuncia sin qui esaminata.

La quantificazione omnicomprensiva dei pregiudizi di cui all’art. 2059 c.c., peraltro, risponde sì all’esigenza di evitare duplicazioni risarcitorie, ma deve conciliarsi con la constatazione che il danno non patrimoniale deve essere liquidato in maniera integrale ed esaustiva, sì che «il giudice avrà l’obbligo di scandagliare – ovviamente iuxta alligata et probata – tutte le ripercussioni che l’illecito ha avuto sulla persona lesa, nessuna esclusa».

Sotto questo profilo, allora, emerge ancora una volta l’esigenza di un giudizio fortemente personalizzato che – pur non potendo prescindere dal necessario ricorso ai barémes medico-legali – sia inteso a cogliere le effettive peculiarità della vicenda concreta sub iudice, valorizzandone i fattori specifici e, in particolare, quelli singolari, inusuali od anomali.

Ma tale ultima osservazione evoca problematiche, di portata tutt’altro che settoriale, le quali meriterebbero ben altra attenzione.

 

* L’approfondimento riproduce il testo – senza note – del commento alla sentenza di Cass. III, 9 febbraio 2010, n. 2847, redatto dall’Avv. Gabriele Chiarini, dal titolo Il medico (ir)responsabile e il paziente (dis)informato. Note in tema di danno risarcibile per intervento terapeutico eseguito in difetto di consenso, pubblicato in Giurisprudenza italiana, 2011, 4, 818.

 

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