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Infezione protesi aortica

Infezione della protesi endovascolare: un caso di risarcimento per malasanità

Responsabilità medica, quando la cura diventa un danno: l’importanza della prevenzione e della corretta gestione delle infezioni delle protesi aortiche

In questo approfondimento vi raccontiamo la storia di Francesco[*] e il calvario che hanno passato lui e la sua famiglia prima di arrivare al tragico epilogo. Un intervento protesico eseguito male, una infezione della protesi gravissima, mal documentata, a cui si aggiunge un tumore alla vescica che non si riesce a risolvere del tutto.

In mezzo a tutto questo: decine di esami, di interventi e re-interventi, con una famiglia che corre da una struttura all’altra per capire come curare (e magari guarire) il proprio caro, e una comunicazione da parte dei professionisti sanitari che definire manchevole è puro eufemismo. Un caso di malasanità articolato e complesso.

Imprudenza imperizia, negligenza. Ci sono tutti i profili colpevoli di responsabilità in questa vicenda clinica, che abbiamo risolto in via stragiudiziale, riuscendo a far riconoscere alla famiglia un giusto risarcimento pari a 382.000 euro (compresi interessi, rivalutazione e spese di lite). Scopriamo qualcosa di più sul caso, seguito dalla nostra Avv. Claudia Chiarini.

[*] La storia raccontata in questo articolo è vera, al pari dei suoi risvolti legali. Per poterne scrivere rispettando la privacy dei protagonisti abbiamo naturalmente modificato il nome del paziente e quello dei suoi familiari, nonché alcuni altri dettagli che avrebbero potuto consentire di identificarli.


INDICE SOMMARIO


§ 1. I fatti e gli errori nell’intervento di protesi aortica

Francesco è un uomo di 70 anni in buona salute e con un fisico prestante. Nel 2015, si sottopone a una TAC e gli viene diagnosticato un aneurisma iliaco (insieme a formazioni linfonodali alla vescica), per cui è sottoposto ad un intervento di endoprotesi aortica bisiliaca presso un ospedale del Centro Italia.

L’intervento viene eseguito in modo scorretto, si forma un endoleak (rimane sangue all’interno del lume aneurismatico, nonostante la presenza della protesi). Per questo, l’uomo inizia a sentirsi male e gli viene infatti diagnosticata la “sindrome post evar“, che può insorgere come risposta infiammatoria conseguente alla riparazione endovascolare di un aneurisma aortico.

I familiari chiedono che vengano eseguite sia delle colture ematiche sia un angiotac + RM al fine di avere un quadro più preciso. Tutto quello che fa l’equipe vascolare, invece, è somministrare massicce dosi di steroidi (senza nessuna profilassi antibiotica, né prima, né dopo l’intervento).

Viene dimesso, a loro parere, in “discrete condizioni generali”.

La figlia di Francesco, Elisa (anche questo è un nome di fantasia), non si arrende. Quello che ha fatto questa donna per il padre non è stato solo continuare a cercare risposte, ma aver tenuto testa ai sanitari che cercavano di minimizzare il suo ruolo e le sue, tutte giuste, intuizioni su come stesse evolvendo il quadro clinico del padre.

Spesso nei nostri casi incontriamo familiari determinati. Nel caso di Francesco siamo davvero rimasti stupiti della grinta di questa donna, che ha messo nero su bianco ogni dettaglio di questa vicenda, con una perizia che ritroviamo solo nei nostri consulenti più esperti.

Elisa, per l’appunto, si mette a studiare in autonomia cosa sono gli endoleak, capendo che quello di suo padre era un tipo particolarmente complesso da rilevare perché la presenza di sangue nella sacca proveniva dalle arterie lombari e da quella mesenterica inferiore.

L’inversione di questo flusso ematico era perciò molto difficile da individuare anche con un ecocolordoppler. Nonostante questo, l’uomo viene sottoposto a questo esame che, non essendo appropriato, non rileva l’origine dell’endoleak.

§ 2. Il carcinoma uroteliale scoperto grazie ai familiari

Intanto, visto che la prima TAC aveva comunque evidenziato delle formazioni aspecifiche vescicali, il paziente viene sottoposto a uretrocistoscopia, che risulta negativa. La famiglia, comunque, non si arrende e chiede un altro parere a un’altra equipe di un altro ospedale.

A nove mesi da quella prima TAC e dal primo intervento di endoprotesi, l’uomo viene nuovamente ricoverato, la diagnosi è carcinoma uroteliale in situ. Si sottopone a un ciclo di chemioterapia, intervento TURB (rimozione chirurgica di un tumore vescicale), a un’uretrocistoscopia, altri cicli di chemio altri tre ricoveri per cistoscopia transuretrale che evidenzia altre formazioni nella vescica, e una nuova TURB.

Viene proposto di asportare totalmente la vescica, ma Francesco si oppone. I familiari si rivolgono a un altro medico che parla di una metodica mai sentita prima dai famigliari, la TURP, resezione transuretrale della prostata che a quanto pare è superiore rispetto alla TURB.

Francesco, prima di sottoporsi a questo nuovo intervento, esegue un’ ‘angiotac che rileva l’ingrossamento dell’aneurisma a 9 cm! A dimostrazione ulteriore del fatto che il primo intervento non aveva funzionato.

L’uomo viene ricoverato subito. Purtroppo, aggiungiamo noi, nello stesso reparto che aveva eseguito il primo intervento che aveva causato l’endoleak (ancora in corso!).

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§ 3. L’infezione della protesi (da staphylococcus epidermidis)

I medici, per intervenire sull’aneurisma ingrossato, sottopongono l’uomo a un intervento per rimuovere la parte principale dell’endoprotesi messa quasi due anni prima ed effettuare un innesto aorto-endoprotesico. L’uomo viene dimesso, ancora una volta, senza nessuna terapia antibiotica di profilassi. Questo nonostante l’esame delle colture avesse rivelato la presenza sia dell’escherichia coli, che di solito è un batterio che si trova nelle feci, sia del temutissimo staphylococcus epidermidis.

Ma l’antibiogramma che rilevava questo secondo batterio non finì mai nella cartella clinica dell’uomo. I “prodigi” della sanità digitale e delle nostre cartelle cliniche elettroniche che, come vedete, non esistono. Perché se esistessero queste informazioni ci finirebbero in automatico, nella cartella del paziente.

Ma torniamo al nostro batterio.

L’infezione protesica è un’infezione correlata all’assistenza ed è una delle complicanze più temibili in questo tipo di intervento. Lo STAPHYLOCOCCUS EPIDERMIDIS coagulasi-negativo è in grado di penetrare la parete della protesi e restare in uno stato latente per parecchi mesi, provocando un processo infiammatorio cronico.

Tali germi a basso potenziale di virulenza producono una sostanza mucoide extracellulare che protegge in maniera meccanica la colonia da qualsiasi terapia antibiotica e dai naturali processi difensivi dell’organismo.

Non essendo stata impostata nessuna terapia specifica per questo batterio, l’agente patogeno continua ad agire indisturbato.

Protesi endovascolare per gli aneurismi dell’aorta addominale

§ 4. L’infezione protesica avanza, Francesco peggiora

Francesco, intanto, si sottopone all’intervento TURP che riesce, ma il tumore non se ne va. Ci vuole quindi una terapia antitumorale efficace e la famiglia si volge a un altro oncologo, che prescrive a Francesco una cura quasi completamente composta da fattori anti crescita e vitamine.

La cura funziona perché la crescita delle formazioni vescicali si blocca. Per qualche mese sembra stare meglio. Poi improvvisamente, tornano gli stesse sintomi, peggiorati, che aveva avuto dopo il primo intervento di endoprotesi.

Tremori, sudorazione, febbre. La terapia oncologica viene interrotta. Sottopongono l’uomo a cicli di flebo reidratanti e vitaminiche. Francesco improvvisamente non riesce più a camminare.

Sospettano una brutta infezione. Ma in nessun caso viene richiesta una consulenza infettivologica, lo stafilococco continua a fare danni e nessuno interviene con una terapia antibiotica adeguata.

L’uomo viene ricoverato nuovamente, ma solo dietro insistenza della famiglia, gli viene fatta una TAC che in effetti rivela ascessi infettivi in prossimità delle arterie femorali iliache.

Lo operano per rimuoverli. Poi lo spostano al reparto di infettivologia.

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§ 5. Quella consulenza infettivologica mai richiesta

Nel reparto di infettivologia, le informazioni che la famiglia riceve dai vari sanitari sono a dir poco frammentarie e sconcertanti: per un medico Francesco aveva le ore contate, per un altro sarebbe sopravvissuto con la giusta cura (quale?), per altri le emoculture erano irrilevanti in casi come quello!

Francesco, nonostante queste chiacchiere, migliora, a parte il fatto che continua a non camminare. Lo cateterizzano e lo dimettono con terapia antibiotica solo per l’escherichia coli, perché la presenza dello stafilococco, non essendo il relativo antibiogramma presente in cartella, viene ignorata.

Elisa non demorde e chiede (lei, non i medici!) una consulenza infettivologica, cioè quello che avrebbero dovuto fare i sanitari fin dal primo intervento.

La dottoressa interpellata vuole giustamente sapere tutta la storia clinica del padre e qui inizia un altro film che mai avremmo voluto raccontare. Elisa deve chiedere ripetutamente ai sanitari i dati del padre, ma questi oppongono resistenza. Solo le insistenze dell’infettivologa fanno evolvere la situazione ed Elisa finalmente riceve tutti i documenti. Compreso quell’antibiogramma dello stafilococco che era andato “perso”.

La prima domanda che si fa la dottoressa è perché non sia mai stata richiesta una consulenza infettivologica fin dal primo intervento! La professionista legge la documentazione, capisce l’errore madornale fatto (si sono persi lo stafilococco) e prova in extremis a somministrare una terapia antibiotica come ultimo tentativo, spiegando alla figlia che troppe cose erano state gestite male.

«È dovere del medico salvare vite, non distruggerle.»

(Teofrasto Bombasto Von Hehenheim, detto “Paracelso“)

Gli ultimi giorni di Francesco

Nonostante le nuove cure, Francesco si aggrava. Adesso non riesce nemmeno a deglutire, gli posizionano il PICC (Peripherally Inserted Central Catheter), un catetere inserito nel sistema venoso centrale attraverso una vena periferica per trasfusioni, infusioni e alimentazione parenterale. E infatti, sempre dietro insistenza di Elisa, gli diagnosticano una grave esofagite da reflusso e un’ernia iatale.

L’uomo rischia di andare in sepsi, il primario consiglia di rimuovere la protesi, ma il medico che aveva effettuato l’intervento di innesto si rifiuta, dicendo che l’uomo ormai è troppo debilitato per sottoporsi a un altro intervento.

Francesco viene trasferito in un’altra struttura, ma i medici gli tolgono il PICC senza avvertire i familiari. Questo è l’ultimo errore fatale.

Nella struttura privata Francesco è ben accolto e accudito, ma non essendoci più la via trasfusionale non è possibile fare infusioni o somministrare antibiotici. In quei 19 giorni presso la struttura, Francesco sente che la fine è vicina.

Perde a poco a poco coscienza e quando un medico propone, in extremis, di accompagnarlo in una struttura dove avrebbe potuto rimettere la PIC, l’uomo rifiuta. Si spegne qualche giorno dopo.

§ 6. La valutazione medico legale di questo caso di infezione della protesi aortica

Come ribadito dal medico legale, la causa principale della morte di Francesco è quell’infezione da Stafilococco Epidermidis che non fu mai trascritta nella cartella clinica del paziente e, quindi, mai trattata.

Si è quindi rilevata la grave imperizia e imprudenza per non aver considerato l’infezione e per non aver richiesto una consulenza infettivologica. E si è anche stabilita una negligenza per non aver controllato che la cartella clinica del paziente fosse completa.

Secondo il criterio del “più probabile che non”, se non si fossero verificate tutte queste omissioni la morte dell’uomo si sarebbe potuta evitare. Infatti, la morte di Francesco è stata determinata, con attendibile nesso causale e secondo un criterio di elevata probabilità, da violazioni delle regole di diligenza, perizia e prudenza medica addebitabili alle strutture sanitarie che hanno avuto in cura il paziente.

Ripercorrendo tutta questa storia, sentendo anche la stessa figlia, è chiaro come quell’errore sanitario, gravissimo, si sarebbe potuto evitare con una buona comunicazione, una cartella clinica elettronica funzionante, ma anche una prassi medica sapiente e collaborante, perché ancora nel 2023, con l’antibiotico resistenza che avanza e le infezioni correlate all’assistenza che non si fermano, eseguire interventi chirurgici ad alto rischio infettivo, come quelli protesici, senza richiedere una consulenza infettivologica è assolutamente insensato e frutto, ci spiace dirlo, di una mancata collaborazione tra colleghi.

L’apporto multidisciplinare si sta dimostrando fondamentale per gestire tutte le malattie, dai casi acuti a quelli cronici. Crediamo che lo stesso approccio collaborativo dovrebbe essere la norma per qualsiasi intervento chirurgico. Per il bene e la sicurezza dei pazienti.

Infezione protesi endovascolare: vedi

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