Home » Media » La responsabilità sanitaria e la tutela risarcitoria dei diritti del malato

La responsabilità sanitaria e la tutela risarcitoria dei diritti del malato

Responsabilità Medico-Sanitaria e Diritti del Paziente

INDICE SOMMARIO


(*) L’articolo riproduce il testo di un intervento dell’Avv. Gabriele Chiarini, pubblicato nella (compianta) sezione “Diritto 24” del Sole24Ore.

§ 1. La responsabilità medico-sanitaria e la tutela risarcitoria dei diritti del paziente

Il fenomeno della responsabilità sanitaria è divenuto oggetto di crescente attenzione da parte degli operatori giuridici ed ha assunto, attualmente, proporzioni che erano sconosciute vent’anni fa. I repertori della giurisprudenza civile, di merito e di legittimità, testimoniano che la responsabilità del medico ha rappresentato un tema decisamente marginale almeno sino all’inizio degli anni novanta del secolo scorso; le decisioni giudiziarie sono progressivamente cresciute fino all’anno 2000; con l’avvento del nuovo millennio, il contenzioso sembra essere letteralmente esploso.

Beninteso, questa crescita esponenziale delle controversie civili da medical malpractice non può essere messa in relazione con un asserito aumento della fallibilità dei sanitari: non è vero, infatti, che i medici sbaglino, oggi, più che in passato; anzi, è probabilmente vero il contrario, atteso che la scienza medica è notevolmente avanzata negli anni e, con essa, sono parimenti progredite la preparazione e la competenza degli operatori.

L’aumento del contenzioso legato alla responsabilità sanitaria, dunque, affonda probabilmente le radici in una serie diversificata di fattori: la progressiva presa di coscienza, da parte dei pazienti, dei propri diritti, agevolata dalla accresciuta scolarizzazione della popolazione e dalla costante attività di sensibilizzazione praticata dalle associazioni a tutela dei diritti del malato; l’evoluzione degli strumenti di diagnosi e di cura, che per un verso ha aumentato le aspettative del cittadino e, per altro verso, ha moltiplicato le possibilità di controllo sull’attività dei medici; la crescita dell’entità degli importi liquidati a titolo risarcitorio, che – diciamolo – ha comprensibilmente alimentato gli interessi economici che gravitano sul nostro settore.

Naturalmente, questa evoluzione non sarebbe stata possibile in difetto del progressivo mutamento, verificatosi almeno a partire dal 1999, degli orientamenti giurisprudenziali sui principali aspetti della materia in discorso: la natura dell’obbligazione del medico e della casa di cura; la colpevolezza; il riparto dell’onere della prova; le esimenti; il nesso di causalità; i danni risarcibili. Sono tutti temi che, com’è noto, hanno affrontato profondi – e talvolta travagliati – percorsi ermeneutici, sino a trovare approdo in un assetto molto meno severo, rispetto al passato, per il paziente (e per il suo difensore). Non è un caso, del resto, se il legislatore ha sentito l’esigenza di intervenire sul tema dettando le “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” di cui alla ormai solo relativamente recente legge 8 marzo 2017, n. 24, introdotta con il fine – parzialmente frustrato anche dalla emendabile tecnica normativa – di ripristinare un equilibrio nel rapporto giuridico tra medico e paziente.

In questo breve intervento, tutt’altro che sistematico, desideriamo concentrare l’attenzione su due profili, invero centrali, che assurgono – insieme al danno – a presupposti della responsabilità medico-sanitaria: la colpa e il nesso causale. Cercheremo di farlo attingendo all’esperienza di due casi concreti affrontati nella nostra pratica professionale di difensori dei pazienti e delle relative famiglie in casi di malpractice medico-sanitaria.

“Può sembrare strano affermare il principio che il primissimo requisito di un Ospedale è che non deve danneggiare il paziente”

Florence Nightingale, Notes on Hospitals, 1863

§ 2. La colpa: dalla responsabilità dell’operatore sanitario alla responsabilità sanitaria

A séguito della progressiva evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali, la responsabilità della struttura sanitaria, si è ampliata ed arricchita di nuovi contenuti. Mentre sino a qualche decennio fa la responsabilità dell’ente veniva fondata soltanto, ex art. 1228 c.c., sui comportamenti dolosi o colposi dei singoli operatori sanitari, gli attuali orientamenti giurisprudenziali identificano una responsabilità contrattuale autonoma dell’ente in caso di carenze della struttura ospedaliera, anche quando non sussistano condotte colpevoli imputabili al singolo sanitario.

Si è, dunque, spezzato il rigido legame tra responsabilità dell’ente ospedaliero e colpa (o dolo) del medico (o del personale paramedico), e si è via via profilata l’ipotesi di un danno provocato da inefficienza della struttura sanitaria, vale a dire da fatti o eventi eziologicamente riconducibili a fenomeni di disorganizzazione dell’ospedale.

Sotto questo profilo, uno fra gli ultimi casi che il nostro Studio ha affrontato e risolto favorevolmente riguarda proprio una tragica vicenda dovuta ad una disfunzione organizzativa. Un giovane di trentotto anni, reduce da un incidente stradale, viene portato in pronto soccorso, dove ci si accorge che i principali valori ematici stanno progressivamente scendendo; è quindi verosimile che abbia una emorragia interna. Tuttavia, non si riesce ad individuare la fonte del sanguinamento, perché – per una erronea organizzazione dei turni e delle reperibilità – nessuno dei sanitari è capace di effettuare una ecografia. Così, il giovane muore, nonostante il disperato tentativo di trasferirlo in un’altra più attrezzata Struttura. Sarebbe bastata una splenectomia d’urgenza per salvargli la vita, se solo i medici avessero potuto individuare la fonte dell’emorragia, che proveniva da una lesione della milza.

Si tratta di una vicenda avvenuta prima del 2000 in un piccolo pronto soccorso del centro Italia, ma i Consulenti Tecnici d’Ufficio avevano lucidamente rilevato che l’ecografia nel sospetto peritoneo doveva considerarsi una prestazione sicuramente indispensabile per quel presidio; e che anzi, in quel periodo storico, anche la TC era reputata una procedura diagnostica essenziale. Di qui l’inescusabilità della disfunzione organizzativa, eziologicamente alla base della morte del paziente.

Eppure, all’epoca il tema della carenza d’organizzazione era assai poco congeniale all’impostazione dei giudici, specialmente di merito: in primo grado, infatti, la domanda risarcitoria era stata respinta, ritenendosi preclusa la possibilità di condannare una Azienda Sanitaria in difetto di colpa di uno dei suoi medici. Ci sono voluti anni di battaglie legali per ottenere, finalmente dalla Corte d’Appello di Ancona, il riconoscimento della responsabilità della Struttura e del diritto dei familiari a ricevere un congruo risarcimento danni per malasanità.

Hai bisogno di aiuto per un caso di malasanità?

§ 3. Il nesso causale: dalla probabilità logica alla probabilità statistica

Daremo per assodate le cognizioni del lettore in merito all’accertamento del nesso causale in materia civile, che – com’è ormai noto – deve seguire la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”. Non si deve dimenticare, però, che tale criterio non può ridursi ipso facto all’aberrante regola del 50% plus unum (l’espressione è di Cass. III, 27/07/2011, n. 15991), poiché la ragionevole probabilità che un antecedente eziologico abbia provocato un danno non va intesa in senso statistico, ma in senso logico; questo vuol dire che anche una causa statisticamente improbabile può assurgere a genesi del danno, se tutte le altre possibili cause fossero – nel caso concreto – ancor più improbabili, e non siano concepibili altre possibili cause.

Parimenti noto e tralatizio è il principio secondo cui, se la colpa si presume, il nesso causale deve essere provato dal paziente che assuma di essere stato danneggiato. Meno diffusa, tuttavia, è la constatazione – invero abbastanza autoevidente – che il nesso causale non sia un fatto, ma una relazione tra fatti e, in quanto tale, tipicamente un giudizio (umano). I fatti si possono provare; i giudizi no. Pertanto il problema dell’onere della prova del nesso di causa è più arduo di quanto si possa comunemente ritenere, e meriterebbe ben altra attenzione rispetto a quella che sovente i giudici di merito gli riservano, limitandosi a demandare la risoluzione della questione al C.T.U.

La Suprema Corte ha efficacemente descritto questo tema, confermando come la causalità, in quanto relazione stabilita dall’uomo a posteriori tra due fatti, non sia in sé oggettivamente accertabile (Cass. III, 20/02/2018, n. 4024). La stessa pronuncia ha magistralmente chiarito che “l’espressione ‘prova del nesso causale’, largamente diffusa nel lessico giudiziario e forense, costituisce in realtà una metonimia: il nesso di causa in quanto tale non è provabile, perché costituisce l’oggetto d’un ragionamento deduttivo, non un fatto materiale. D’una motivazione che accertasse o negasse il nesso di causa potrebbe discutersi se sia logica, non se sia provata […]. Quando dunque si discorre di ‘prova del nesso di causa’ si usa una espressione ellittica per designare la prova dei fatti materiali, sui quali fondare il ragionamento (non rileva qui se logico-deduttivo, analitico-induttivo, inferenziale, probabilistico) ricostruttivo del nesso o della sua inesistenza”.

Per questo, non sono mai consentiti ragionamenti riduttivi o semplificati sul nesso di causa.

Di ciò, la giurisprudenza sembra acquisire progressiva consapevolezza, come è accaduto in un caso – obiettivamente complesso – che abbiamo recentemente affrontato davanti al Tribunale di Bologna. Si dibatteva della possibilità di ricondurre eziologicamente una complicanza post-operatoria (disfagia) alla esecuzione tecnica del chirurgo. Chiarito che si trattasse di complicanza prevedibile e perciò, in linea di principio, evitabile, era stata altresì prodotta letteratura scientifica che attestava come senz’altro verosimile la correlazione tra l’errore esecutivo e la disfunzione residuata, mentre non erano predicabili ulteriori antecedenti forniti di maggior rilievo causale.

Nondimeno, il C.T.U. aveva affermato di non ritenere “provato” il nesso causale, anche per mancato raggiungimento della asserita soglia statistica del 51%. Bene, prendendo lucidamente le distanze dalle valutazioni del – pur stimato – Consulente, il Giudice ha ritenuto di formulare alle parti una proposta conciliativa di risarcimento, che postulava chiaramente risolto in senso affermativo il problema della sussistenza del nesso causale. Si è fatta corretta applicazione, dunque, del corollario per cui – in presenza di diverse possibili concause di un medesimo danno – è compito del Giudice valutare quale di esse appaia relativamente “più probabile che non” rispetto alle altre nella determinazione dell’evento.

Ti è piaciuto l’articolo? Condividilo sui Social