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Medicina di guerra - Studio Legale Chiarini

Medicina di guerra

Quando la prestazione si fa scienza: la “medicina di guerra”

Che sia nel mezzo di una catastrofe, di una guerra, in un piccolo paese di montagna o in un ospedale cittadino, è il medico ad occuparsi di noi nel momento più fragile della nostra vita, quando siamo malati o feriti. È sempre lui che, con tanti o pochi mezzi a disposizione, scavando nel suo sapere o inventando e improvvisando, cerca di tenerci in vita.

In questo particolare momento storico in cui la guerra è così vicina a noi, e ucraini e russi combattono e muoiono in un conflitto senza senso, come tutti i conflitti armati del resto, è importante parlare dei medici e degli operatori sanitari sul campo.

Sono uomini e donne che, con sacrificio, vincendo la paura e affrontando enormi difficoltà, fanno del tutto per riportare a casa, vivi, i soldati e i civili feriti.

Parliamo quindi di medicina di guerra: cos’è, quali sono le differenze con la medicina in tempo di pace, come si è evoluta nel corso della storia.


INDICE SOMMARIO


§ 1. Che cos’è la medicina di guerra

Sulla carta, la medicina di guerra o sanità militare è il complesso dell’organizzazione sanitaria delle forze armate di un Paese. È costituita da personale militare, con specializzazione in medicina, in farmacia o in infermieristica.

Ma nella realtà, cosa vuol dire essere un medico di guerra? Soprattutto, cosa sono la Medicina e la Chirurgia di guerra? Non sono specializzazioni che si imparano all’Università, eppure hanno caratteristiche e regole molto diverse dalla medicina d’urgenza praticata in tempo di pace.

Per un medico al fronte lavorare in emergenza è la regola, gli ospedali sono luoghi improvvisati, il più delle volte tendoni piazzati e messi su in poco tempo, con un paio di tavoli operatori e qualche posto letto post-operatorio, quando va bene. Tutto ciò che serve, il più delle volte, entra in uno zaino. Il resto è conoscenza, memoria, a volte improvvisazione o colpi di genio. Qui il medico può contare solo su questo, solo su sé stesso.

Non c’è tempo per consultare manuali o articoli scientifici o chiedere a un collega, perché ogni secondo che passa può fare la differenza tra la vita e la morte.

Sono tanti i medici che si sono trovati in questa situazione, alle prese con traumi e ferite di ogni genere: da arma da fuoco, da mina anticarro, da granata, da esplosioni, da ordigni rudimentali e fatti in casa pieni di chiodi e bulloni. Ognuno provoca danni diversi. E il medico magari non ha alcuna competenza nella chirurgia traumatologica, non ha mai visto una ferita d’arma da fuoco, se non ai tempi dell’università, forse.

Come si fa allora ad affrontare tutto questo?

Secondo il medico americano (di origine indiane) Atul Gawande si può, applicando quello che nella medicina civile si fa raramente: fare della prestazione una scienza, indagare e perfezionare le conoscenze e le tecnologie di cui già si dispone, aggiornando i kit di emergenza in base all’esperienza sul campo di battaglia, trovando soluzioni anche per prevenire i danni o scongiurare le infezioni.

Perché si può contare solo su questo. E perché, se nella chirurgia civile si parla di “golden hour” (i primi sessanta minuti in cui, se si cura un paziente, questo ha maggiori probabilità di essere salvato), in guerra le ferite spesso sono molto gravi e si può contare solo su “5 minuti d’oro”.

Non c’è a disposizione un normale equipaggiamento medico, con respiratori portatili, sacche di sangue per le trasfusioni, nessuna possibilità di fare delle radiografie. Gli ortopedici individuano le fratture con il tatto, l’urgenza si tratta contenendo il danno anche con mezzi improvvisati. E in mezzo c’è la guerra, con i suoi rumori, gli odori e il dolore delle vittime, enormi difficoltà e sacrificio personale.

Senza poi pensare a come le persone, spesso salvate per un soffio, ma che hanno perso un braccio, una gamba, parte del volto, riusciranno ad andare avanti. Come sarà la riabilitazione, come potranno dare un senso alla loro vita, avendo riportato danni così gravi.

Anche per questo, per ogni ferito, nonostante il caos e la fatica è importante raccogliere i dati, descrivere le ferite e il tipo di intervento, anche se non è sempre possibile. Tutto ciò che nella medicina civile o in tempo di pace è routine e protocollo, definito e scontato, nella medicina di guerra non lo è.

§ 2. Chirurgia di guerra

“In Ucraina c’è bisogno di medici che sappiano gestire le ferite da arma di fuoco, specialisti in medicina di guerra. C’è necessità di chirurghi e ortopedici”.

Questo è l’appello di Emergency, da sempre in prima linea negli scenari di guerra di tutto il mondo.

In un’intervista per Repubblica, Paolo Grasso, medico di Emergency, spiega bene che la chirurgia e la medicina di guerra (così come l’infermieristica) dovrebbero essere delle discipline a parte, che hanno bisogno di una formazione specifica, anche per fare scelte spesso molto difficili in pochissimo tempo e nel bel mezzo della devastazione di un conflitto armato.

Perché le condizioni in cui opera un medico e un chirurgo di guerra sono estreme, con scarse risorse e spesso con pochi farmaci a disposizione, che costringono ad agire in modo molto diverso dai tempi di pace.

Le “scelte tragiche” della medicina di guerra

Poi, da gestire, c’è il numero di feriti che affluisce in ospedale e segue l’evoluzione della guerra, dei bombardamenti. In seguito a un attacco, ad esempio, moltissime persone ferite si riversano negli ospedali da campo in poco tempo, perché quelli civili sono stati distrutti dalle bombe. E il “triage” ha criteri ben diversi da quelli in tempo di pace, poiché la precedenza è data dalla possibilità di sopravvivenza di ogni singola persona (e parliamo spesso anche di civili: donne, bambini, anziani, persone malate). Perché in tempo di guerra non si può partire dal paziente più grave, ma da quello che ha più possibilità di sopravvivere.

È una scelta orribile, che sottopone il medico a uno stress emotivo altissimo, difficile da sostenere.

Per questo un medico di guerra deve essere formato, sapere a cosa va incontro, per non mettere a rischio la sua vita e quella di altri. Ma, allo stesso tempo, anche in mezzo alle bombe e alla violenza, la solidarietà e l’impegno alla cura non devono arretrare, mai.

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§ 3. Medicina di guerra e medicina civile nella storia

Durante la Grande Guerra morirono nelle trincee, sotto le bombe e i proiettili, intere generazioni. Solo in Italia si ebbero 600.000 morti, 1 milione di feriti gravi, tra cui 500mila mutilati. Numeri esorbitanti. Non solo: le pallottole dilaniavano i corpi, spezzavano gli arti, deturpavano i volti. I medici mandati al fronte non avevano mai visto tanta devastazione ed erano impreparati ad affrontare gli orrori di una guerra “moderna”.

Dopo pochi mesi dall’inizio del conflitto, la sanità militare mostrò tutta la sua inadeguatezza ed era al collasso. Mancavano attrezzature, materiali sanitari e personale qualificato e addestrato per agire in tempo di guerra.

Nel 1916, per affrontare questa drammatica emergenza, il governo italiano allora istituì una Scuola medica da campo, a San Giorgio di Nogaro, in zona di guerra: una vera e propria Università al fronte. Qui, tra il 1916 e il 1917 si tennero corsi accelerati di medicina e chirurgia per oltre mille studenti. Erano giovani allievi di medicina che si trovarono a fare pratica sui corpi dei soldati feriti, perché chiamati a curare lesioni e traumi mai visti fino ad allora.

Paradossalmente, la guerra con i suoi orrori e la sua follia è stata (e lo è ancora) terreno di ricerca, di sperimentazione clinica-sanitaria che poi, trasferita dal campo militare alla medicina civile, ha contribuito al progresso della medicina stessa.

La medicina di guerra nella storia antica

Partendo dal mondo antico e dalle prime conoscenze anatomiche del corpo umano, si arriva ai Romani, che per primi crearono un abbozzo di organizzazione ospedaliera per l’assistenza ai soldati feriti e per i traumi dei contadini e degli operai; poi al Medioevo e al Rinascimento, in cui i chirurghi di guerra hanno fatto scoperte successivamente utilizzate in tempi di pace.

L’invenzione del “pronto soccorso” si deve alla sanità militare napoleonica, così come la nascita della professione infermieristica si deve alla guerra di Crimea (1853-1854) e alle intuizioni di Florence Nightingale.

L’idea di fondare la Croce Rossa Internazionale, invece, si deve alla battaglia di Solferino (1859), così come l’antisepsi alla Prima guerra mondiale. Fino ai giubbotti antiproiettile di kevlar, usati dalla polizia americana sin dagli anni ’70 e dati poi anche ai soldati della prima guerra del Golfo.

Insomma, il rapporto tra guerra e medicina è un rapporto di scambio, a sfavore e a favore. Perché se da una parte la guerra porta con sé traumi orribili e malattie, dall’altro disegna e ridefinisce le conoscenze mediche, contribuendo anche in maniera decisiva al progresso nel campo della chirurgia, cura e assistenza medica.

§ 4. Florence Nightingale. La piccola grande rivoluzione di un’infermiera

Quando si parla di infermieristica in tempi di guerra non si può non ricordare Florence Nightingale.

Inglese, nata nel 1820, era infermiera in un’epoca in cui gli ospedali erano luoghi da evitare. Nelle corsie si accalcavano pazienti affetti dalle più diverse malattie e il concetto di igiene era piuttosto sconosciuto. Perfino i medici non si lavavano le mani prima di un intervento chirurgico ed entravano in sala operatoria con gli stessi abiti che indossavano per strada.

Non stupisce quindi che la mortalità all’interno degli ospedali ottocenteschi fosse molto elevata.

Florence intuì che per migliorare il livello di assistenza sanitaria fosse necessario partire da alcuni aspetti fondamentali: l’igiene delle mani e degli ambienti, l’organizzazione dei servizi socio-assistenziali e la relazione di cura con i malati.

Le sue idee, semplici ma rivoluzionarie, suscitarono grande interesse nel governo inglese, grazie anche alla sua capacità di sostenerle attraverso l’evidenza scientifica.

Durante la Guerra di Crimea, fu nominata sovrintendente del corpo infermieristico degli Ospedali Riuniti inglesi in Turchia. L’ospedale di Scutari ospitava migliaia di letti affastellati in 6 km di corridoi lunghi e sporchi. Era infestato da topi, non c’era acqua e i gli scarichi dei bagni intasati fuoriuscivano nelle corsie.

La riduzione del tasso di mortalità

Nightingale arrivò con 38 infermiere, di cui solo 12 sarebbero sopravvissute. Dimostrò che l’alto tasso di mortalità tra i soldati (circa il 42%) era collegato all’inadeguatezza dell’assistenza sanitaria e, nonostante l’ostilità degli ufficiali medici, che non condividevano questa teoria, contando su donazioni private, con tenacia e determinazione, riuscì a dotare l’ospedale di efficienti servizi igienico-assistenziali e di attrezzature adeguate.

Il tasso di mortalità scese al 2%.

Attraverso le sue osservazioni, l’applicazione di modelli statistici e la raccolta di dati epidemiologici, riuscì a dimostrare la fondatezza delle sue teorie, che in breve tempo portarono a una significativa riduzione del livello di mortalità e di morbilità anche tra i pazienti civili.

Il modo di costruire gli ospedali, di organizzare i reparti di ostetricia, di gestire le caserme era cambiato grazie a lei, così come la stessa formazione infermieristica.

Passò gli ultimi 40 anni della sua vita a fornire consulenze negli ospedali di mezzo mondo, tra cui gli Stati Uniti, e le sue scuole di infermieristica erano le più richieste dai governi di molte nazioni.

§ 5. Conclusioni & Fonti

Anche se la medicina di guerra ha in parte contribuito allo sviluppo della medicina e dell’infermieristica moderna, rimane comunque un tipo di assistenza sanitaria che non vorremmo fosse mai messa in pratica.

Chiudiamo quindi questo breve excursus con le parole di un medico e chirurgo di guerra, che ha dedicato la sua vita ad assistere e curare le persone, in tutto il mondo, nei più drammatici scenari di guerra e povertà:

“Credo che la guerra sia una cosa che rappresenta la più grande vergogna dell’umanità. E penso che il cervello umano debba svilupparsi al punto da rifiutare questo strumento sempre e comunque in quanto strumento disumano”.

Gino Strada (fondatore di Emergency)

Fonti

  • A. Gawande, Con cura. Diario di un medico deciso a fare meglio, Einaudi, 2019;
  • La Repubblica, Medico di Emergency: “In Ucraina chirurghi in grado di trattare ferite di guerra. E di operare sotto le bombe“;
  • RAI Cultura, Medicina di guerra;
  • L. Lancia, C. Petrucci, L’infermiere n. 4/2005, Università degli Studi dell’Aquila.

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