Home » Media » La sanità italiana, dal 1861 al 1978
La sanità italiana, dal 1861 al 1978

La sanità italiana, dal 1861 al 1978

Salute e sanità: dall’Unità d’Italia all’istituzione del servizio sanitario nazionale

La sanità italiana non è sempre stata così come la conosciamo. C’è stato un lungo processo che ha interessato l’azione pubblica in campo sanitario ed è durato più di cent’anni: dall’Unificazione (nel 1861) all’istituzione (nel 1978) del servizio sanitario nazionale, che oggi tutti conosciamo e, a dire il vero, diamo un po’ per scontato.

Approfondiamo in questo articolo quali sono state le principali tappe di questa evoluzione storica, riservandoci di analizzare in un prossimo contributo lo sviluppo della sanità italiana e della disciplina normativa in materia di tutela della salute dal 1978 ai giorni nostri.


INDICE SOMMARIO


§ 1. Salute e sanità nell’Europa dell’800

Durante la rivoluzione industriale in Inghilterra, nel corso della prima metà dell’Ottocento, l’ambiente in cui viveva la gente comune, la cosiddetta “working class” nelle principali città industriali dell’attuale Regno Unito (come Manchester, Birmingham, Leeds o Liverpool), era davvero tragico, degno di un girone infernale.

Le ragioni principali erano due:

  1. il lavoro nelle fabbriche sottoponeva gli operai (spesso bambini e adolescenti) a turni prolungati (dodici ore, anche notturne) ed a fatiche massacranti in cambio di salari miseri;
  2. il contesto abitativo ed urbano in cui si svolgeva la vita quotidiana era caratterizzato da sovraffollamento, promiscuità, scarsa o povera alimentazione, totale assenza di infrastrutture igieniche, esposizione continua a rischi infettivi (come ad esempio tubercolosi, febbre tifoide e colera).

Le conseguenze di questi due fattori (lavorativo ed abitativo) ebbero ripercussioni devastanti sulla qualità della vita e sulla salute della popolazione. Basti pensare che a Liverpool la speranza di vita alla nascita per la working class era di appena 15 anni.

La garanzia delle condizioni di salute come problema di ordine pubblico in Inghilterra

Per sopperire alle problematiche condizioni di vita e di salute della popolazione, le autorità inglesi intervennero realizzando un radicale programma di risanamento urbano attraverso la costruzione di fognature, acquedotti, nuove aree residenziali ed aree verdi, nonché istituendo, con una legge del 1848 (Public Health Act) un servizio nazionale di sanità pubblica.

Artefice di questa politica fu soprattutto Sir Edwin Chadwick (1800-1890), che aveva capito come le condizioni insalubri delle città provochino malattie e disordini sociali, determinando un degrado psicologico che può trascinare le persone verso i vizi, o peggio, verso la rivoluzione. Quindi, l’azione pubblica finalizzata a garantire condizioni ambientali adeguate aveva come fine ultimo quello di rendere la classe proletaria più sana, felice e produttiva. E, nel contempo, assicurare la pace sociale.

…in Germania

Allo stesso modo, in Germania, il cancelliere Otto Von Bismarck (1815-1898) promosse la creazione di uno “stato sociale” quale misura necessaria per distaccare il proletariato dalla tentazione rivoluzionaria. Così, furono progressivamente istituiti sistemi di assicurazione obbligatoria contro le malattie (attraverso la costituzione di casse sociali, finanziate per due terzi dagli operai e per un terzo dagli imprenditori) e di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (interamente a carico dei datori di lavoro).

La legislazione bismarckiana sulle assicurazioni sociali rappresenta senz’altro un punto chiave nella tutela della salute della
popolazione e costituirà un “caso scuola” che sarà imitato da parte di quasi tutte le nazioni industrializzate.

…e in Italia

Anche nell’arretrata Italia, la salute è sostanzialmente, nell’800, una questione di ordine pubblico.

L’azione pubblica in campo sanitario, infatti, affonda le radici nella finalità di difendere la salute pubblica sotto il profilo igienico-sanitario. Si trattava di salvaguardare lo stato di salute e promuovere il miglioramento delle condizioni fisiche e psichiche della collettività sulla base dei dati relativi alla frequenza e alle modalità di diffusione delle malattie (epidemiologia), individuando misure di protezione sanitaria riguardanti lo stato ambientale e il comportamento individuale e collettivo.

A metà dell’ottocento, la salute della popolazione è un problema di polizia sanitaria.

L’obiettivo è quello di scongiurare i pericoli per l’incolumità pubblica derivanti dalla diffusione di malattie, specie epidemiche. La garanzia delle condizioni di salute della popolazione, dunque, costituiva attività di pubblico interesse non in considerazione di un diritto individuale dei cittadini, ma eminentemente come questione di ordine pubblico.

§ 2. Unificazione dello stato italiano e sanità

Nel 1861, il neonato Regno d’Italia era un paese povero, arretrato, con meno della metà degli abitanti attuali: il 63% degli italiani era occupato nell’agricoltura, il 44% viveva in condizioni di povertà assoluta.

L’aspettativa di vita alla nascita era di 29 anni e la mortalità infantile era alle stelle: 289 nati morti ogni mille nascite.

La mortalità generale era di 30 decessi ogni mille abitanti.

Insomma, la qualità della vita era molto scarsa e la vita era breve. Ma per oltre 25 anni il neo Stato unitario non fece nessun passo in avanti concreto per migliorare la situazione.

Per vedere qualche cambiamento positivo occorre aspettare il 1887 con le famose Leggi Crispine.

La legge 22/12/1888, n. 5849 (“Sull’ordinamento dell’amministrazione e dell’assistenza sanitaria del Regno“)

Il primo governo Crispi (1887-1890), esponente della Sinistra storica, realizzò due importanti riforme, quella della Sanità pubblica e quella delle Opere pie.

La legge sull’Igiene e la Sanità pubblica chiuse una volta per tutte la questione sul Codice sanitario che escludeva una ”ingerenza” dello Stato nelle questioni di sanità, e soprattutto nel “libero esercizio delle proprietà e delle forze individuali”.

Ma visto che gli individui la salute, da soli, se la curavano poco e male, lo Stato, per fortuna, decise di intervenire. Il nuovo testo introdusse il sacrosanto principio secondo cui “l’Igiene pubblica deve essere comandata”, cioè è una questione che deve essere gestita e tutelata dallo Stato.

La legge fu rapidamente approvata il 22 dicembre 1888, grazie anche all’allarme sociale provocato dall’ epidemia di colera del 1885-6. E continuò a dare i suoi frutti per tutti i 90 anni successivi, fino alla creazione del Sistema Sanitario Nazionale nel 1978.

Il ruolo del Ministero dell’Interno

Tornando a Crispi, per mettere in atto la legge, il Capo di Governo aveva deciso di dotarsi delle giuste competenze tecniche istituendo presso il Ministero dell’interno un Ufficio (poi Direzione) di Sanità pubblica, cui vennero annessi due laboratori di clinica e di batteriologia e una Scuola di perfezionamento per la formazione dei futuri Ufficiali sanitari e Medici provinciali per gli oltre 8.000 Comuni e le 69 Province del Regno.

Non esisteva il Ministero della Salute (dovremo aspettare il 1958 per il Ministero della Sanità che, nel 2001, diventerà l’attuale Ministero della Salute), era gestito tutto dal Ministero dell’Interno, attraverso i Prefetti.

Non esistevano le Regioni, che videro la luce solo nel 1970 (quando vennero istituite le regioni ordinarie con l’elezione, per la prima volta, dei consigli e l’adozione dei relativi statuti).

Il ruolo dei Comuni

C’erano però i Comuni, a cui era affidata la vigilanza igienica su:

  • malattie infettive;
  • bevande e alimenti;
  • igiene del suolo e dell’abitato (incluse le case di abitazione, i cimiteri e le coltivazioni di riso);
  • le industrie insalubri.

Ma essi dovevano controllare anche:

  • l’esercizio delle professioni sanitarie;
  • le farmacie;
  • l’amministrazione della carità “legale” disposta dallo Stato, che assicurava l’assistenza sanitaria agli iscritti nella lista dei poveri.

Il nuovo corso dell’amministrazione sanitaria era quindi coordinato dalla Direzione di sanità pubblica, con il supporto delle competenze tecnico-scientifiche del Consiglio superiore di sanità e dei Laboratori centrali della sanità pubblica, e con il supporto del Medico provinciale e dell’Ufficiale sanitario/ Medico condotto a livello locale.

Il grosso della spesa veniva quindi affrontato dai Comuni: per l’esercizio finanziario 1890-91 ad esempio, il bilancio del Ministero degli Interni riportava previsioni di spesa per 1,7 milioni di lire, contro una spesa obbligatoria per i Comuni stimata in 70 milioni, di cui tre quarti imputati a “igiene e beneficienza”.

La legge sulle Opere pie

La legge del 17 luglio 1890 trasformava tutte le Opere pie in istituzioni pubbliche di beneficenza.

Parliamo delle oltre 22.000 istituzioni prevalentemente controllate dalla Chiesa, dotate di un patrimonio di più di due miliardi di lire, e con una rendita annua di poco inferiore ai 100 milioni di lire.

Tra di esse, gli ospedali ammontavano a poco più di un migliaio, ma disponevano di quasi un terzo del patrimonio complessivo, con una rendita media annua stimata attorno alle 400.000 lire ciascuno.

Questa legge aveva il pragmatico obiettivo di laicizzare la beneficienza, e ci riuscì. Mancò invece l’obiettivo di trasformare gli ospedali da luoghi di ricovero in centri di assistenza sanitaria.

Il 18 febbraio 1883, su ispirazione di Luigi Luzzatti (1841-1927), era stata stipulata una convenzione per l’assicurazione volontaria contro gli infortuni sul lavoro tra il ministro dell’Agricoltura, industria e commercio, e i rappresentanti delle più importanti casse di risparmio e di credito italiane.

Approvata con legge n. 1473 dell’8 luglio 1883, tale convenzione diede vita alla Cassa nazionale infortuni, embrione del futuro INAIL che nascerà in epoca fascista.

Con la legge n. 350 del 1898 nasce il primo embrione della previdenza sociale, la Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai. Si tratta della prima a forma di assicurazione a carattere previdenziale, ma era del tutto volontaria. Fu solo tra le due guerre, nel 1919, che nacque la Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali (CNAS), rendendo la previdenza obbligatoria per tutti i lavoratori dipendenti.

L’età giolittiana

Sotto Giolitti (capo del Governo dal 1903), l’evoluzione più significativa in ambio sanitario riguarda la lotta alla malaria. La legislazione giolittiana aggiunse alla bonifica idraulica di eliminazione delle acque stagnanti, e a quella agricola, anche la cosiddetta bonifica “umana”, che interveniva sulla popolazione delle campagne.

Negli anni successivi furono approvate diverse leggi sulla gestione della malattia che confluirono poi nel Testo Unico del 1° agosto 1907, in cui si prevede per la prima volta un intervento diretto pubblico: era lo Stato, attraverso la Direzione di sanità, e l’impiego dello stabilimento chimico-farmaceutico militare di Torino, a produrre chinino (un potente farmaco antimalarico) e a distribuirlo gratuitamente alle famiglie e ai lavoratori delle zone malariche.

La Grande Guerra

Molti definiscono questo periodo uno spartiacque tra la sanità ottocentesca e tutto quello che è avvenuto dopo.

La tubercolosi venne inclusa tra le invalidità causate dalla guerra e si stanziarono fondi per costruire sanatori antitubercolari nel Comuni. Nacquero i Comitati provinciali antitubercolari, con funzioni di vigilanza igienica, diagnosi precoce e formazione generale e specifica della popolazione.

Tra il primo e il secondo dopoguerra, nascono le casse mutue malattia per lavoratori di varie categorie: enti assicurativi corporativi con iscrizione obbligatoria per lavoratori con garanzia di diagnosi e cura, assistenza farmaceutica e riabilitazione a iscritti e familiari a carico.

Non era quindi un servizio universalistico, ma solo per alcuni cittadini (i lavoratori dipendenti). Il principio assicurativo si basava su due punti:

  1. l’assistito deve incorrere in un evento morboso e deve avere necessità di cure;
  2. l’assistito deve dimostrare di essere in possesso di clausole contrattuali che fanno maturare tale diritto.

Hai bisogno di supporto in materia di salute e sanità?

§ 3. La sanità italiana nel periodo fascista

Oltre alla politica demografica e al programma di bonifica integrale, il documento più importante di quest’epoca è la Carta del lavoro del 21 aprile 1927, che annunciava un programma di assicurazioni sociali per “il perfezionamento dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e la disoccupazione involontaria; il miglioramento della tutela della maternità; l’assicurazione per le malattie professionali e la TBC come avviamento dell’assicurazione generale contro tutte le malattie”.

Negli anni del fascismo, la CNAS diventa l’INFPS (Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale, che dopo la caduta del fascismo perderà la F del nome) e gestisce le assicurazioni obbligatorie per invalidità e vecchiaia, disoccupazione, maternità ed assegni familiari nonché, dal 1935, l’assicurazione contro la TBC.

L’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro – INAIL – nasce nel marzo 1933, dall’unificazione della Cassa nazionale infortuni e delle Casse private di assicurazione.

L’INAIL nasce come INFAIL (e la F avrà lo stesso destino dell’INFPS) e si occupa dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e alcune malattie professionali relative alle lavorazioni pericolose e contro l’anchilostomiasi, cui sarebbero state aggiunte nel 1943 silicosi ed asbestosi.

Nel 1934 nasce l’Istituto di Sanità Pubblica, che prenderà il nome di Istituto Superiore di Sanità nel 1941.

Con la legge 138 del 1943 viene introdotta l’obbligatorietà di assicurazione sociale di malattia di lavoratori dipendenti e nasce l’ Ente mutualità fascista-Istituto nazionale assistenza malattie, che diventerà poi Istituto nazionale di assicurazione malattia (INAM), la più grande e potente fra le Casse mutue.

Tutta questa nuova organizzazione di amministrazioni parallele, opere nazionali e casse mutualistiche iniziava a frammentare la gestione della salute pubblica (un problema che ci trasciniamo ancora oggi nonostante le decine di riforme).

Il secondo TU delle leggi sanitarie (r.d. 27 luglio 1934, n. 1265) definiva un sistema sanitario su vari livelli simile a quello dell’epoca liberale, con il grosso dell’impegno da parte dei Comuni.

La cd. legge Petragnani del 30 settembre 1938 differenziò gli ospedali dalle semplici infermerie e li classificò in tre categorie secondo le loro dimensioni, misurate come presenza media giornaliera dei ricoverati.

La gestione degli ospedali continuava però ad essere affidata a benefattori locali e lo stesso finanziamento dipendeva da questi soggetti.

Le spese per i ricoveri erano remunerate secondo rette giornaliere stabilite da ciascun Ente, poste a carico dei Comuni per gli iscritti nell’elenco dei poveri, e degli Istituti mutualistici per i loro assicurati.

Le Casse mutue per l’assicurazione contro le malattie fornivano copertura assistenziale a circa un terzo della popolazione, principalmente lavoratori dipendenti del settore privato, cui si aggiunsero negli ultimi anni di guerra i dipendenti dello Stato e degli Enti Locali, ed i loro familiari.

§ 4. Il secondo dopoguerra e l’avvento della Repubblica

L’Italia del secondo dopoguerra era un paese allo stremo, più dal punto di vista sociale che materiale.

L’aumento della mortalità generale, salita dal 13,4‰ del 1939 al 15,9‰ del 1944, era dovuto principalmente alle malattie infettive, ed in particolare alla recrudescenza di TBC (+28%), malaria (+54%) e tifo (+44%).

La penicillina e la streptomicina, i due grandi antibiotici prodotti dalla ricerca angloamericana della Seconda guerra mondiale, insieme al DDT (pesticida per le zanzare) divennero disponibili in Italia solo a partire dal 1947.

Le istituzioni sanitarie versavano in una crisi profonda. Inflazione e svalutazione avevano impoverito le riserve degli Enti previdenziali, affidate alla capitalizzazione ed investite in titoli di Stato, mentre gli alti tassi di disoccupazione avevano ridotto il gettito fiscale. Ma se in molti Paesi il welfare stava dando i suoi frutti, con grandiosi progetti di riforma sociale, in Italia le cose non erano andate allo stesso modo.

Nel 1945 fu istituito un Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica (ACIS), posto alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio, che partecipava al Consiglio dei Ministri solo su invito e senza diritto di voto. Le istituzioni e gli enti creati nel periodo fascista sopravvissero senza importanti modifiche.

Nel 1948, con la nascita della Costituzione Repubblica Italia, l’art. 32 fa diventare la tutela della salute un diritto costituzionale.

Le mutue

Anche negli anni ’50 si proseguì con l’assistenza sanitaria divisa tra l’attività caritatevoli dei Comuni con le liste dei poveri, l’intervento diretto dello Stato nella Sanità pubblica, e la tutela assicurativa dei lavoratori attraverso gli Enti mutualistici.

Le mutue per le malattie cosiddette “comuni” fornivano agli “iscritti principali” sia coperture economiche, fra il 50 e l’80% del salario, sia prestazioni sanitarie comprendenti l’assistenza ospedaliera e medico-generica, che alcune mutue integravano con l’assistenza farmaceutica e specialistica.

La copertura garantiva solo un numero massimo di giornate annue per assistito, variabile fra gli enti e diverso per titolari e familiari (per l’INAM, ad esempio, era di 180 giorni/anno per gli iscritti principali e di 30 per i loro familiari).

L’assistenza era assicurata da convenzioni con enti ospedalieri pubblici e case di cura private, con cui venivano negoziate le rette giornaliere di degenza.

Fino al 1952 erano stati esclusi da ogni forma di assistenza i lavoratori autonomi. Poi tra 1953 e 1956 si costituirono mutue autogestite.

Il Ministero dei “salvo”

Quella della nascita del Ministero della Salute è una storia travagliata perché non lo voleva praticamente nessuno.

Per fare contenti i riformisti, nel 1945 era stato istituto l’ACIS che però non aveva praticamente nessun peso politico e decisionale. Con la legge 13 marzo 1958 n. 296, dopo accesi dibattiti, nasce finalmente il Ministero della Sanità, denominato scherzosamente, all’inizio, dei “salvo”, per via dell’infinito elenco di cose che non avrebbe potuto fare.

Furono comunque affidate competenze in materia di igiene e profilassi delle malattie infettive e diffusive; ma il finanziamento delle relative attività, inclusi i ricoveri ospedalieri e le vaccinazioni, restarono a carico dei Comuni. Le Casse mutue restarono sotto la vigilanza del Ministero del lavoro e della previdenza sociale.

La sanità viene articolata in questo modo:

  1. Livello centrale (Consiglio Superiore di Sanità Pubblica / Istituto Superiore di Sanità);
  2. Livello periferico (Uffici di Medici e Veterinari Provinciali / Uffici Sanitari dei Comuni e dei consorzi dei Comuni / Uffici Sanitari specifici es. zone di confine).

Il sistema mutualistico inizia a mostrare le sue debolezze soprattutto per due motivi:

  • l’accesso a prestazioni dei cittadini è diversificato a causa di una pluralità di enti;
  • manca una programmazione nazionale con conseguenti squilibri in strutture e modalità operative.

Inizia in questo periodo a prendere corpo una riflessione su una soluzione che prevedesse la liquidazione di Enti mutualistici e la creazione di un Servizio Sanitario Nazionale.

Gli ospedali

Gli ospedali fino al secondo dopoguerra hanno mantenuto un assetto istituzionale che male si prestava alla necessaria riorganizzazione richiesta dai passi in avanti fatti dalla medicina e dalla tecnologia. Soprattutto, non erano pronti all’aumento di ricoveri che ci sarebbe stato in quegli anni.

Come affermò il Ministro della Sanità Giardina nel 1959, durante il primo dibattito alla Camera sulla “questione ospedaliera”:

I cittadini hanno ormai quasi del tutto superato quello stato d’animo (…) di paura o di diffidenza verso gli ospedali. Oggi la situazione è quasi capovolta: tutti preferiscono ricorrere all’ospedale anche per lievi infermità”.

Con la legge del 12 febbraio 1968 n. 132 (“legge Mariotti“), concernente “Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera”, si introduce una profonda innovazione degli ordinamenti degli ospedali pubblici, prevedendo la costituzione di un Consiglio di Amministrazione in ogni ospedale, e una classificazione e definizione della struttura in relazione ai livelli di competenza:

  • regionale/altissima specialità;
  • interprovinciale/alta complessità;
  • provinciali/media complessità;
  • di comunità/di base.

I nosocomi diventano enti ospedalieri autonomi, con una stessa organizzazione e dedicati allo svolgimento di attività di ricovero e cura, con attività di programmazione ospedaliera e piano assistenziale ospedaliero da raccordare con i piani regionali.

La grave crisi finanziaria che colpì gli enti mutualistici all’inizio degli anni ’70, e il trasferimento alle Regioni delle funzioni statali in materia di “assistenza sanitaria ed ospedaliera” (D.P.R. 14 gennaio 1972 n. 4) costituirono gli eventi che portarono alla creazione del S.S.N. con la legge 833 del 23 dicembre 1978.

§ 5. Fonti e risorse utili

  • F. TARONI, La sanità in Italia dall’Unità al Servizio sanitario nazionale (1861-1978), in Manuale critico di Sanità pubblica, Rimini, Maggioli, 2015, pp. 215 – 223 [consultabile qui]
  • Il ministero oggi compie 60 anni, pietra miliare della salute pubblica [su www.salute.gov.it]
  • Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i Presidenti di Regione, nel cinquantesimo anniversario di costituzione delle Regioni a statuto ordinario [su www.regioni.it]
  • F. QUARANTA, Le origini dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali [consultabile qui]
  • La storia dell’INPS [su www.inps.it]
  • Istituto nazionale della previdenza sociale – INPS, 1933 [su www.beniculturali.it]
  • Storia della clorochina e dei suoi antenati [su www.scienzainrete.it]
  • Organizzazione del Sistema Sanitario Nazionale [su www.opira.it]
  • INAIL, La storia [su www.inail.it]
  • ISS, La nostra storia [su www.iss.it]

Ti è piaciuto l’articolo? Condividilo sui Social