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Superlavoro Dirigente Medico

Il risarcimento dei danni alla salute da “superlavoro” del dirigente medico

Quali sono i criteri per il riconoscimento dei danni alla salute sofferti dal personale medico a causa del c.d. “superlavoro”?

La Corte di Cassazione, con la propria ordinanza n. 6008 del 28/02/2023, ha deciso il caso di un dirigente medico, che aveva domandato – nei confronti dell’Azienda sanitaria di cui era dipendente – il risarcimento del danno biologico, essendo stato costretto, per molti anni, allo svolgimento di intollerabili ritmi e turni di lavoro, a causa dei quali aveva subìto un infarto del miocardio.

Analizziamo insieme la vicenda decisa dalla Corte ed i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di responsabilità da “superlavoro”.


INDICE SOMMARIO


§ 1. La definizione giurisprudenziale del c.d. “superlavoro”

Il termine “superlavoro“, coniato dalla giurisprudenza (a partire da Cass. 8267/1997) è la prestazione che superi il normale limite di tollerabilità, misurabile in base alle comuni regole di esperienza (ad es. svolta con modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa, o comunque in misura irragionevole).

Il superlavoro è vietato dall’art. 2087 c.c., che pone – in capo al datore di lavoro – l’obbligo di attribuire, pretendere e ricevere dal lavoratore una qualità e quantità di prestazione che sia coerente “con la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica“, in modo che non ne derivi pregiudizio alla “integrità fisica” ed alla “personalità morale del lavoratore” (cfr. Cass. 34968/2022).

§ 2. Il rapporto WHO-ILO del 2021

In materia è interessante fare accenno ad un recente studio, del 2021, condotto dall’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) e dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), riguardo all’impatto delle ore di lavoro sulla salute dei lavoratori, con cui si è evidenziato che “lavorare più di 55 ore a settimana incrementa il rischio di malattie cardiovascolari e di ictus” (vedi).

Lo studio (riferito al periodo dal 2010 al 2016) evidenzia che il numero di persone il cui lavoro è stato svolto con orari prolungati (pari o superiore a 55 ore a settimana) è in aumento nel tempo e che, nel 2016, l’orario di lavoro prolungato, nel mondo, è stato la causa di circa 745.000 morti dovute a cardiopatie e ictus: un aumento del 29% rispetto al 2000. La maggior parte dei decessi registrati riguardava persone di età compresa tra i 60 e i 79 anni che avevano lavorato almeno 55 ore a settimana quando avevano un’età di 45 anni o più.

Da notare, con specifico riferimento al lavoro in sanità, che il rapporto in commento riguarda l’analisi di dati risalenti ad un periodo pre-Covid; pertanto, durante la pandemia il problema non può che essersi aggravato ulteriormente, per tutti gli operatori sanitari che sono stati impiegati in prima linea nella lotta al virus.

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§ 3. Il riparto dell’onere della prova nelle cause di risarcimento danni da superlavoro

Nel caso deciso dalla citata ordinanza n. 6008/2023, la richiesta di risarcimento danni avanzata dal dirigente medico era stata rigettata nei primi due gradi di giudizio, dal Tribunale di Lanciano e dalla Corte d’Appello de L’Aquila.

I Giudici di merito avevano ritenuto che il dirigente non fosse riuscito a provare la sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno e che non risultava neanche dedotta – dal dirigente – la specifica violazione di ben determinate norme di sicurezza.

Al contrario, la Corte di Cassazione ha rilevato che il medico, in giudizio, ben poteva limitarsi ad allegare e provare:

  • la nocività dell’ambiente di lavoro (desumibile dalla ricorrenza di fattori di rischio, come il continuo superamento dell’orario contrattuale e/o legale), e – dunque – l’inadempimento del datore di lavoro rispetto al generale obbligo di sicurezza (di garantire un ambiente di lavoro salubre);
  • la sussistenza del danno alla salute;
  • il relativo nesso di causalità.

Inoltre, secondo la Cassazione, non si può imporre al lavoratore l’onere di individuare la violazione di una specifica norma prevenzionistica (Cass. 23187/2022): è sufficiente la deduzione della ricorrenza di prestazioni di durata o intensità che ecceda la ragionevole tollerabilità (Cass. n. 34968/2022).

Poiché si tratta di responsabilità contrattuale, nella quale la colpa del debitore si presume, sarà poi l’Azienda sanitaria a dover dare in giudizio la prova, liberatoria, di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno.

§ 4. La prova (del lavoratore): la nocività dell’ambiente di lavoro ed il nesso di causalità

Nel caso in esame, la sussistenza dei turni di lavoro prolungati e continuativi è stata considerata pacifica ed il nesso di causalità è stato desunto dalla documentazione (in atti) relativa al procedimento amministrativo di riconoscimento della causa di servizio e del c.d. equo indennizzo (che il dirigente medico in quel caso aveva ottenuto).

Peraltro, normalmente, i predetti elementi non sono così facili da dimostrare. Infatti, da un lato occorrerà circostanziare e comprovare gli orari svolti o l’intensità dei turni di lavoro, dall’altro potrebbe esserci, ad esempio, il concorso di altre cause, magari da sole in grado di causare l’evento dannoso, come, ad es., il fumo o le insalubri abitudini di vita.

§ 5. La prova liberatoria dell’azienda sanitaria

L’Azienda sanitaria, nel caso in esame, sosteneva che il superlavoro del dirigente medico dipendeva da una cronica insufficienza di organico, al quale la stessa Azienda non poteva porre rimedio a causa del divieto legale di assumere altri dipendenti senza l’autorizzazione della Regione.

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Inoltre, sarebbe stato lo stesso ricorrente, in quanto dirigente medico, ad adottare i provvedimenti organizzativi determinanti le sue condizioni lavorative, il che escludeva la responsabilità datoriale.

I Giudici di merito facevano leva anche su tali argomenti, accogliendoli, per escludere che il dirigente avesse offerto la prova della violazione di obblighi di sicurezza da parte del datore di lavoro.

Per la Cassazione, invece, le questioni andavano sì considerate, ma, sotto altra luce, per chiarire se l’Azienda avesse offerto la prova, su di essa gravante, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Trattandosi, peraltro, di questioni di fatto, dovranno a questo punto essere riesaminate dal giudice di rinvio.

In ogni caso, quanto al ruolo dirigenziale del lavoratore, un’altra pronuncia della Cassazione ha comunque precisato che, di per sé, non costituisce un fattore di esclusione della responsabilità datoriale, residuando pur sempre in capo al datore di lavoro un obbligo di vigilanza in ordine al rispetto delle misure atipiche di sicurezza ex art. 2087 c.c. (Cass., 27 gennaio 2022, n. 2403).

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