Ultimo Aggiornamento 20 Maggio 2024
Fenomenologia giuridica e modalità di accertamento del collegamento eziologico condotta-evento
L’indagine sul nesso causale si costituisce quale momento necessario nell’accertamento dell’illecito, tanto civile quanto penale, ogni qualvolta la struttura dell’illecito si componga di un evento giuridico, inteso come una modifica dello stato del mondo lesiva di un bene protetto dall’ordinamento.
In ambito MedMal – responsabilità sanitaria e risarcimento dei danni – la ricostruzione del nesso causale risulta fondamentale ed imprescindibile.
Si pensi a tutti i casi di decesso o di lesione che si reputano riconducibili ad errore medico (o lato sensu sanitario): in tali casi, infatti, è necessario verificare il nesso, ossia il collegamento eziologico tra l’errore (condotta) e la morte o la lesione (evento), al fine di sancire la responsabilità professionale medica ed il conseguente risarcimento dei danni[1].
L’articolo analizza in sintesi la figura del nesso causale nel tentativo di delinearne la forma e fornire al lettore una risposta su:
- cosa deve intendersi per nesso causale;
- che forma assume sul piano giuridico;
- quali sono le sue diverse manifestazioni;
- come verificarlo e quando può ritenersi provato;
- in che termini si distingue tra processo civile e processo penale;
- qual è la peculiare relazione che emerge, negli illeciti omissivi impropri colposi (sia civili che penali), tra il nesso causale e la evitabilità dell’evento quale elemento strutturale della colpa;
- su chi grava l’onere di provarlo nel processo civile (in particolare nell’ottica della responsabilità sanitaria e del conseguente risarcimento danni).
[1] Parafrasando R. Blaiotta, si può dire che lo studio dell’illecito (sia civile che penale) «è scienza causale per eccellenza, tutto o quasi nel fatto (illecito, ndr) è ricostruzione di nessi causali» (così R. BLAIOTTA, Causalità giuridica, Giappichelli, Torino, 2010, p. 26).
INDICE SOMMARIO
- § 1. Il nesso causale
- § 2. Il nesso causale nel diritto: la “causalità giuridica”
- § 3. Le manifestazioni del nesso causale: illeciti commissivi ed omissivi
- § 4. La prova del nesso causale
- § 5. Il nesso causale tra processo civile e processo penale: distinzioni
- § 6. L’onere della prova del nesso causale nel processo civile
§ 1. Il nesso causale
Per mezzo della verifica sul nesso causale si intende determinare il perché un certo fenomeno si è realizzato.
Il perché si riferisce ad un rapporto, ad una connessione tra un antecedente ed un susseguente: l’antecedente è legato al proprio susseguente in un rapporto di causa-effetto, secondo la tripartizione tipica:
“condotta – nesso causale – evento”.
Tale approccio ha carattere naturalistico-razionale (o anche logico-descrittivo) e viene indicato con il termine condizionalismo: si considera come causa di un certo evento l’insieme delle condiciones sine quibus non, ossia le condizioni senza le quali l’evento non sarebbe venuto ad essere.
Il condizionalismo si fonda sul principio della equivalenza: ciascuna condizione sine qua non è necessaria alla produzione dell’evento e dunque vale quanto le altre.
§ 2. Il nesso causale nel diritto: la “causalità giuridica”
Il condizionalismo viene acquisito dal diritto nella sua propria struttura logico-naturalistica (e non avrebbe potuto essere diversamente).
Cosa deve intendersi allora per “causalità giuridica”?
Anzitutto diciamo che tale sintagma vuole qui significare esclusivamente la connotazione giuridica del nesso causale (senza alludere, dunque, alla distinzione che la dottrina civilistica opera tra causalità materiale come nesso tra condotta ed evento e causalità giuridica come nesso tra evento e danno: stando a questa distinzione dovremmo allora chiarire che qui parliamo di causalità materiale).
La dottrina ha introdotto in particolare il concetto di causalità giuridica (fondandolo normativamente sull’art. 41, comma 2, c.p.) come un plus rispetto al condizionalismo (che è sempre stata la teoria di base), al fine di trovare correttivi al principio di equivalenza delle condizioni, in modo tale da valorizzare la rimproverabilità della condotta.
§ 2.1 Causalità e rimproverabilità: i correttivi al condizionalismo
Occorre chiarire questo punto: quando inizialmente è stata sviluppata questa teoretica della causalità giuridica, era possibile rispondere giuridicamente delle proprie condotte anche in termini di responsabilità soltanto oggettiva.
Quando la responsabilità è oggettiva si risponde già solo per la sussistenza di nesso causale tra la propria condotta e l’evento, a prescindere dall’elemento soggettivo (cioè a prescindere dalla sussistenza di colpa o dolo).
Questa è la ragione che ha mosso la dottrina a sviluppare correttivi (attraverso le teorie della causalità umana, della causalità adeguata, dell’imputazione oggettiva dell’evento, ecc.): il diritto non deve semplicemente spiegare gli accadimenti, ma deve attribuire responsabilità e sanzioni.
Rebus sic stantibus, si spiega perché la dottrina ha elaborato quei correttivi: era il modo di sottrarre rilevanza alle condotte che, pur causali perché condizioni sine quibus non, non presentavano carattere di rimproverabilità (vero infatti che il condizionalismo di per sé solo può condurre a conclusioni aberranti sul piano della imputazione giuridica, si pensi ad esempio alla responsabilità di chi cagiona un piccolo graffio a persona che non si sapeva affetta da emofilia, la quale decede per emorragia: sul piano strettamente causale il nesso deve ritenersi sussistente).
Tuttavia, dovendosi ritenere che tanto dall’illecito penale quanto dall’illecito civile (declinato ex art 2043 c.c.) la responsabilità oggettiva sia ormai estromessa, il concetto di causalità giuridica così rappresentato perde utilità, in quanto i correttivi alla indifferenza del criterio condizionalistico operano sul piano dell’imputazione soggettiva: si risponde, dunque, non di ciò che si è cagionato, ma soltanto di ciò che si è cagionato con colpa o con dolo.
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§ 3. Le manifestazioni del nesso causale: illeciti commissivi ed omissivi
Sul piano naturalistico si è soliti individuare l’azione nella spendita di energia fisica, un trasferimento dall’interno all’esterno, in modo che si producano certi effetti: si può rappresentare attraverso l’immagine del movimento corporeo idoneo ad offendere l’interesse protetto dalla norma[2].
L’omissione viene intesa come un «non facere, un quid vacui», ma resta ancora discussa la sua configurabilità sul piano naturalistico, trattandosi appunto di un vuoto.
Se ne riconosce pacificamente, invece, la sua natura normativa, in ragione della quale si costituisce come il «non compiere l’azione possibile, che il soggetto ha il dovere giuridico di compiere (non facere quod debeatur)»[3].
Emergono da tale definizione i due tratti caratterizzanti l’omissione in senso normativo:
- la possibilità della azione omessa, ed
- il dovere giuridico di compierla.
L’art. 40 del codice penale (si ricordi che gli artt. 40 e 41 del codice penale dicono il giuridico del nesso causale con validità generale, per l’intero ordinamento, quindi anche per il diritto civile) recita:
“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.
Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
(Art. 40 c.p.)
Il secondo comma sancisce la equivalenza tra commissione ed omissione in termini causali, e la fa dipendere dalla cd. posizione di garanzia (corrispondente a quell’obbligo giuridico di impedire l’evento).
Si può dunque ritenere che l’addebito è commissivo quando il soggetto introduce una condizione nuova all’interno della linea causale di riferimento; l’addebito è omissivo, invece, laddove si è mancato di contrastare i fattori di rischio già esistenti, non realizzando la possibile condizione salvifica.
[2] F. MANTOVANI, Diritto Penale, Parte generale, Cedam, Padova, VIII Ed., 2013.
[3] Ivi, p. 133.
§ 3.1 Causalità omissiva e dominabilità
Ne consegue che, in relazione ad un evento, c’è omissione rilevante sintantoché c’è signoria sugli accadimenti.
Il concetto pre-giuridico di dominabilità, infatti, si pone a fondamento della posizione di garanzia, e trova consistenza nella possibilità di una deviazione causale attivabile ed in grado di annullare una deriva pericolosa in atto.
La dominabilità esprime, già sul piano del potere, una forma di appartenenza oggettiva dell’evento al soggetto omittente, il quale si trova nelle condizioni di interagire negativamente con il decorso lesivo: l’evento che si concretizza viene dunque a qualificarsi, nella prospettiva condizionalistica, come fatto proprio.
Se così è, allora è corretto affermare che anche l’omissione ha a che fare con la causalità[4], nel senso che pure qui viene imputato ciò che si è causato.
Sul piano logico-causale dell’imputazione oggettiva si deve allora riconoscere che «the cause (…) is the sum total of the conditions, positive and negative taken together; the whole of the contingencies of every description, which being realised, the consequent invariably follows»[5].
[4] Cfr. M. MAIWALD, Causalità e diritto penale. Studio sul rapporto tra scienze naturali e scienza del diritto, Traduzione di Francesca Brunetta d’Usseaux, Giuffrè, Milano, 1999, p. 85.
Cfr. altresì R. BLAIOTTA, Causalità giuridica, cit., pp. 257-8, ove l’A. conferma che la chiave della «causalità giuridica inscritta nella teoria condizionalisitca è di tipo logico» e consiste nella «relazione necessitata, ineliminabile, tra una condizione ed un evento», di guisa che, sul piano logico-giuridico «non vi è una differenza ontologica tra causalità dell’azione e dell’omissione (…); la differenza esiste sul piano naturalistico, ma non su quello dell’ontologia giuridica».
[5] J.S. MILL, A System of Logic, Collected Works (a cura di Robson), vol. 7, 1973, p. 332 (Book III, Chap. V, § 3).
§ 4. La prova del nesso causale
Il discorso sulla prova del nesso causale ha impegnato a lungo i giuristi, e sarebbe impresa davvero ardua rappresentare tutti i passaggi interpretativi e gli orientamenti che si sono susseguiti negli ultimi (almeno cinque) decenni.
Si intende, dunque, limitarsi a tratteggiare sinteticamente la principale problematica affrontata ed i più significativi orientamenti, per poi fornire al lettore il quadro conclusivo delineato dalla giurisprudenza di Cassazione.
In prima battuta la prova del nesso causale può apparire di facile soluzione: se il nesso, come visto, si fonda sul condizionalismo, allora per verificarne la sussistenza occorre indagare se la condotta imputabile al soggetto sia o meno condicio sine qua non rispetto ad un determinato evento: e questo vale identicamente per la condotta commissiva come per la condotta omissiva.
Si procede, dunque, attraverso il cosiddetto giudizio contro-fattuale, connotato dalla clausola del coeteris paribus: quello che rileva è «la condizione necessaria nelle condizioni date»[6].
Si tratta, e ciò è fondamentale, di giudizio ex post in concreto, ossia svolto sulla base di tutte le circostanze sussistenti nel caso specifico, anche non conosciute né conoscibili dal soggetto agente.
In pratica, in caso di condotta commissiva occorre eliminare (mentalmente, in termini logico-descrittivi) la condotta indagata dal decorso causale di riferimento e verificare se l’evento verrebbe meno o permarrebbe ugualmente; in caso di omissione occorre viceversa aggiungere la condotta omessa al decorso causale e verificare la sorte dell’evento.
[6] R. BLAIOTTA, Causalità giuridica, cit., p. 50.
§ 4.1 Il dilemma probatorio del condizionalismo
Il giudizio di condizionalità appare semplice e di facile attuazione, ma nasconde un problema pratico di elevatissima rilevanza.
Al momento applicativo, infatti, si palesa immediatamente la seguente domanda: quando il giudice può ritenere verificata la condizionalità della condotta?
Cioè, in che modo si può concludere nel senso che eliminando la condotta commessa, od aggiungendo la condotta omessa, l’evento verrebbe meno?
Si possono rinvenire sul punto tre macro-orientamenti come di seguito riassumibili.
Il primo orientamento
In un primo tempo si è pensato di dare credito all’intuito del giudice, ovviamente su base razionale: il giudice, così come per la verifica degli altri elementi fattuali, avrebbe potuto utilizzare il ragionamento logico-formale, motivando sul nesso causale sulla base dei dati processuali raccolti, delle ricostruzioni, delle consulenze e dell’esperienza comune.
La critica serrata a questo approccio è stata fondata sulla irriducibile suscettibilità ad errore di una simile ricostruzione di nessi causali, soprattutto nei casi ad alta scientificità.
Il rischio era proprio quello di riconoscere il nesso causale fondandolo su base cronologica: l’evento si è verificato dopo quella certa condotta, e dunque a causa di essa (il cd. post hoc, ergo propter hoc).
Il secondo orientamento
Il secondo orientamento, di conseguenza, ha fatto leva sulla necessità di una valutazione strettamente scientifica: in breve, il giudice deve motivare sulla sussistenza del nesso causale sulla base di una legge scientifica che spieghi il nesso tra condotta ed evento (e che viene indicata come legge scientifica di copertura): occorre che sia la scienza a prendere posizione sulla causalità (con la conseguenza che, in assenza di legge scientifica di copertura, il giudice deve ritenere non sussistente il nesso causale).
Questo approccio ha generato, però, un ulteriore serissimo problema: molto spesso la legge scientifica utilizzata per dare copertura al nesso causale è una legge di natura statistica, e non universale.
Salvo casi eccezionali, infatti, la scienza non è in grado di garantire che ad una certa condotta segue un certo evento con certezza o quasi certezza (fermo restando che anche in questi casi residuerebbero problemi di natura logica, che però qui possiamo tralasciare): nella stragrande maggioranza dei casi il giudice ha a disposizione leggi probabilistiche, secondo cui nelle condizioni date quel certo evento segue quella certa condotta in un certo numero di casi (30%, 65%, 90%, solo come esempi).
Il problema allora, come evidente, è il seguente: quale percentuale esplicativa della legge scientifica di copertura è sufficiente a ritenere verificato il nesso causale?
Autorevole dottrina e giurisprudenza, ad esempio, avevano sostenuto la necessità di coefficienti probabilistici prossimi all’unità, pena la negazione di causalità.
Questo problema ha dato adito ad un enorme dibattito, sfociato nell’anno 2002 in una rimessione della questione alle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione (sentenza Franzese[7]), le quali hanno tuttavia risposto segnando una terza via che ancora oggi resta orientamento consolidato (si può forse dire che con la sentenza Franzese, insieme alla successiva sentenza Cozzini[8], si è messo il punto sulla questione).
[7] Cass. Pen., Sez. Un., 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese.
[8] Cass. Pen., sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, Cozzini più altri.
Il terzo orientamento
I giudici delle Sezioni Unite hanno così deciso: la verifica del nesso causale non si deve fondare sull’indice di probabilità statistica della legge scientifica di copertura, bensì sul grado di probabilità logica raggiunto sulla base di tutti i dati processuali disponibili, i quali dati confermano o smentiscono l’operatività nel caso concreto della particolare relazione ascrivibile a quella legge di copertura.
Insomma, non è risolutivo il coefficiente statistico proprio della legge scientifica di copertura, bensì l’indice logico-razionale esprimente il grado di probabilità che quella certa legge scientifica spieghi il caso concreto.
La legge di copertura di per sé si limita ad attestare la verificabilità, con un certo grado di probabilità, della relazione causale tra classi di accadimenti; l’accertamento su base logica compie il passo ulteriore, indagando con quale grado di probabilità si possa concludere nel senso che, nel caso in decisione, si sia concretizzata proprio quella specifica relazione causale.
Ne deriva che anche una legge a basso coefficiente statistico può essere posta a copertura del nesso causale nel singolo caso, e, viceversa, anche una legge con elevato coefficiente statistico può essere ritenuta non esplicativa della causalità quando calata nel caso da decidere.
Un terzo orientamento, dunque, che supera il primo (del cd. intuito del giudice) ritenendo necessaria la sussistenza di una legge di copertura che supporti scientificamente la verifica eziologica (si deve valutare la migliore scienza ed esperienza del momento storico[9]); e che supera anche il secondo perché sancisce la rilevanza della probabilità logica di operatività della legge scientifica nel caso concreto, in luogo di quella statistica.
[9] F. STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale. Il nesso di condizionamento fra azione ed evento, Giuffrè, Milano, 2000 (I ed. 1975).
§ 4.2 I fattori causali alternativi
Ebbene, alla luce del nuovo orientamento, cosa significa verificare il nesso causale sul piano logico-razionale?
Significa indagare se, nel caso, concreto siano presenti fattori causali alternativi in grado di produrre l’evento e, se sì, valutare specificamente se e quale incidenza ciascuno di essi abboia sortito.
Infatti, i fattori causali alternativi rappresentano differenti possibili cause di quel medesimo evento (ovviamente tali fattori possono dirsi alternativi in quanto escludano le altre condotte; laddove invece si aggiungessero, allora sarebbero ulteriori condizioni di un’unica causa).
Ad esempio, un certo tumore polmonare può conseguire a differenti cause: esposizione a sostanze tossiche, tabagismo, genetica, e così via.
Se si chiama taluno in causa (penale o civile che sia) per aver esposto la vittima a sostanze tossiche così cagionandogli la malattia tumorale, la verificazione del nesso causale necessita di escludere con ragionevolezza che nel caso concreto abbiano operato i fattori alternativi del fumo, della genetica, e così via: tale esclusione deve fondarsi su tutte le risultanze processuali disponibili e deve portare il giudice a concludere nel senso che quello specifico tumore, nel caso concreto, è stato causato dalla esposizione alla sostanza tossica (e non da tabagismo, genetica, eccetera).
Non importa quali siano i coefficienti di probabilità statistica delle leggi scientifiche esplicative delle relazioni sostanza tossica-tumore, fumo-tumore, genetica-tumore, e così via. Ciò che conta è la probabilità logica che la relazione sostanza tossica-tumore risulti convincente nel caso concreto.
La teoria condizionalistica, inverata per mezzo del giudizio controfattuale, trova compimento, dunque, attraverso la combinazione dei due inscindibili ed indefettibili criteri valutativi:
- la sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura;
- l’esclusione, sul piano logico, di fattori causali alternativi.
§ 4.3 I fattori causali alternativi nell’omissione
Si è posto, tuttavia, un ulteriore problema sulla scia di quanto affermato in sentenza Franzese: se nella causalità commissiva è facilmente utilizzabile il criterio dei fattori causali alternativi, trattandosi di capire quale tra diversi possibili fattori sia la causa di quel concreto evento indagato, quid iuris nel caso di causalità omissiva, laddove si tratta di verificare se la condotta omessa avrebbe annullato il potenziale lesivo del fattore che è già stato individuato come causa?
Esemplificando.
Per la causalità commissiva può valere l’esempio di prima sulla esposizione a sostanze tossiche rispetto al tumore polmonare (ciò in quanto, nonostante vari dubbi, si è ritenuto che tale relazione sia commissiva[10]): occorre anzitutto verificare che la scienza confermi la relazione tra quella sostanza tossica e quel tumore (trovare la legge scientifica di copertura); successivamente occorre scandagliare la sussistenza di fattori causali alternativi (tabagismo, genetica, e così via, anch’essi come visto supportati da coperture scientifiche).
Per la causalità omissiva le cose sembrano più complicate.
Ciò in quanto qui il giudizio controfattuale predittivo, tramite cui si indaga cosa sarebbe accaduto se si fosse realizzata la condotta omessa, viene svolto quando il decorso eziologico è già stato determinato: prima si individua la causa, e poi si verifica se l’azione omessa avrebbe impedito l’evento annullando il potenziale lesivo della causa individuata.
Ma allora, se la causa è già determinata, come possono rilevare i fattori causali alternativi nel giudizio predittivo omissivo?
Procediamo dall’esempio precedente: il soggetto esposto a sostanza tossica si ammala di tumore. Ipotizziamo che il tumore sia diagnosticato in ritardo, e che la persona deceda a causa di quel tumore: occorre valutare se la diagnosi tempestiva omessa avrebbe evitato il decesso.
Come si vede, la causa è già stata determinata (tumore): quali sarebbero qui i fattori causali alternativi da valutare, trattandosi non di comprendere cosa abbia cagionato l’evento bensì di svolgere il giudizio predittivo al fine di verificare se la diagnosi tempestiva omessa avrebbe impedito il decesso?
Questa è stata la principale critica mossa alla sentenza Franzese: si è obiettato che la soluzione fondata sulla valutazione processuale di eventuali fattori causali alternativi non potesse operare correttamente per la causalità omissiva.
A questa critica la Cassazione ha dato risposta in successive pronunce, rilevando che in caso di omissione i fattori causali alternativi si presentano come quei fattori che nel caso concreto avrebbero annullato il potenziale salvifico della condotta omessa.
Restando all’esempio, dunque, se una legge scientifica attesta che una diagnosi tempestiva di tumore polmonare può evitare il decesso consentendo un intervento chirurgico salvifico (legge scientifica di copertura) poniamo con indice statistico elevato (80%), ma nel caso concreto esisteva una condizione clinica che avrebbe impedito il trattamento chirurgico o comunque la sua riuscita (fattore causale alternativo), allora si deve concludere per la insussistenza di nesso causale.
[10] Così la stessa Cass. Pen., sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, Cozzini più altri.
§ 5. Il nesso causale tra processo civile e processo penale: distinzioni
Il nesso causale, come anticipato, presenta i medesimi connotati e le medesime modalità di accertamento tanto per il diritto civile quanto per il diritto penale; con una differenza, però, sostanziale, rinvenibile nel quantum di prova ritenuto necessario e sufficiente a considerarne verificata la sussistenza.
Tale questione è stata al centro di molte attenzioni e numerosi dibattiti, in ragione della differente funzione svolta dalla responsabilità civile rispetto alla responsabilità penale: diversi, infatti, i presupposti, e diverse le sanzioni.
Anche sul punto sono intervenute le Sezioni Unite (questa volta civili) della Corte di Cassazione, sancendo che:
“mentre nel processo penale vige la regola della prova oltre il ragionevole dubbio, nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non”[11].
Si tratta di principio ormai consolidato, riaffermato negli anni successivi da numerose altre pronunce[12].
Ovviamente, come già detto, il quantum di prova in parola non è riferito al coefficiente di probabilità statistica proprio della legge scientifica di copertura, ma alla probabilità logica che quella legge spieghi il decorso causale nel caso concreto.
[11] Cass. Civ., Sez. Un., 11/01/2008, n. 581.
[12] La giurisprudenza successiva (ex plurimis cfr. Cass. Civ., sez. III, 09/06/2016, n. 11789; Cass. Civ., sez. III, 22/10/2013, n. 23933; Cass. Civ., sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991) ha chiarito che tale principio deve intendersi in questo senso: è sufficiente che una determinata causa si connoti di una probabilità logica più probabile delle altre cause possibili, e non è dunque necessario che tale probabilità logica sia superiore al 50%.
§ 6. L’onere della prova del nesso causale nel processo civile
L’articolo 2697 del codice civile recita:
“Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.
Designare il soggetto su cui grava l’onere della prova è opera quantomai decisiva: se non riesce a fornire compiutamente la prova, infatti, chi ne è onerato non potrà vedersi riconosciuto il proprio diritto né la risposta dell’ordinamento alla sua lesione o violazione.
Nel diritto civile si distingue tra responsabilità a titolo contrattuale ed a titolo extra-contrattuale:
- con riguardo alla prima si ritiene che il creditore sia onerato di provare soltanto il titolo, e possa limitarsi ad allegare l’inadempimento di controparte;
- con riguardo alla seconda, invece, si ritiene che il danneggiato sia onerato di provare tutto il fatto illecito, e dunque la condotta di controparte, l’evento di danno, il nesso causale e la colpa.
Tali approdi si fondano sulla pre-esistenza del credito nella responsabilità contrattuale e sulla ivi connessa posizione di prossimità del debitore rispetto alla prova.
§ 6.1 L’onere della prova del nesso causale nel processo per responsabilità sanitaria
Nel campo della responsabilità sanitaria si sostiene che il paziente goda di un rapporto di natura contrattuale con la struttura sanitaria accogliente; più complessa la relazione medico-paziente, la cui riconduzione nell’alveo della responsabilità contrattuale è stata conseguita sviluppando il concetto di contatto sociale.
La determinazione dell’onus probandi in materia di responsabilità sanitaria, comunque, sembra quasi refrattaria a sistematizzazioni categoriali e piuttosto suscettibile di rimodulazioni tese a cogliere le singolarità dei casi concreti[13].
Ad ogni buon conto, una giurisprudenza recente[14] ha finito per onerare il paziente della prova eziologica anche in caso di responsabilità contrattuale.
Il ragionamento seguito è complesso e merita di essere chiarito.
In particolare, in Cass. Civ., sez. III, 11/11/2019, n. 28991, si conferma dapprima quanto sostenuto da Cass. Civ., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, secondo cui in caso di responsabilità contrattuale “è onere del debitore provare l’adempimento o la causa non imputabile che ha reso impossibile la prestazione (art. 1218 c.c.), mentre l’inadempimento, nel quale è assorbita la causalità materiale, deve essere solo allegato dal creditore”.
Poi, però, viene sviluppata la deviazione dall’impianto indicato concludendo che “tale forma del rapporto fra causalità materiale e responsabilità contrattuale attiene tuttavia allo schema classico dell’obbligazione di dare o di fare contenuto nel codice civile. Nel diverso territorio del facere professionale la causalità materiale torna a confluire nella dimensione del necessario accertamento della riconducibilità dell’evento alla condotta”[15].
Tale approdo relativo alle obbligazioni di fare professionale viene argomentato come segue.
Si parte dalle seguenti premesse:
- a) il rapporto resta di natura contrattuale;
- b) la Cassazione specifica che la questione della causalità materiale si presenta anche laddove il titolo della responsabilità sia contrattuale;
- c) si distingue tra causalità materiale e imputazione: la causalità materiale attiene alla connessione oggettiva tra fatti, l’imputazione invece rappresenta l’attribuzione di certi effetti giuridici ad un determinato comportamento sulla base di criterio valoriale che nel caso del rapporto contrattuale si dà come inadempienza.
- d) si distingue – questa premessa è fondamentale – tra interesse primario, quale interesse realmente perseguito dalla regolamentazione contrattuale (che nel rapporto sanitario si costituisce come bene salute), da un lato, ed interesse strumentale, coincidente con la prestazione oggetto di obbligazione debitoria, ossia l’interesse alla corretta esecuzione dell’opera professionale, da altro lato;
- e) si specifica che l’interesse primario non rappresenta un motivo soggettivo contrattualmente irrilevante, bensì lo scopo oggettivo del contratto ed in quanto tale ascrivibile all’elemento della causa contrattuale.
Ora, da queste premesse si inferisce quanto segue.
Nel caso della responsabilità contrattuale generica (non di fare professionale) la rilevanza dell’interesse del creditore si ricava dalla stessa esistenza del contratto e dunque dalla prestazione oggetto dell’obbligazione del debitore: la Corte ne deduce che “se la soddisfazione dell’interesse è affidata alla prestazione che forma oggetto dell’obbligazione vuol dire che la lesione dell’interesse, in cui si concretizza il danno evento, è cagionata dall’inadempimento”. Insomma, se l’interesse sotteso alla regolamentazione negoziale coincide con la prestazione dovuta dal debitore, allora l’inadempimento della prestazione coincide con la lesione dell’interesse e dunque con l’evento.
La peculiare disciplina delle obbligazioni di facere professionale
In questi termini, se pure è possibile distinguere tra causalità materiale ed imputazione in astratto, in concreto i due giudizi si sovrappongono in quanto non adempiere la prestazione significa di per sé cagionare l’evento di lesione (e dunque l’imputazione come inadempimento e la causalità materiale come relazione tra fatti vengono a sovrapporsi).
Così, nelle generiche obbligazioni di dare e di fare, sarà sufficiente allegare l’inadempimento per provare implicitamente anche l’evento e la causalità materiale: l’inadempimento assorbe la prova del nesso causale.
Ciò non vale, sostiene la Suprema Corte, invece, per le obbligazioni di fare professionale.
Si dice, come visto in premessa, che nella responsabilità sanitaria l’interesse realmente perseguito dalla regolamentazione contrattuale si costituisce come bene salute, ossia l’interesse primario, e si distingue dall’interesse strumentale alla prestazione oggetto di obbligazione debitoria, che si limita alla corretta esecuzione dell’opera professionale.
Qui, allora, non si può ritenere che l’esatto adempimento dell’obbligazione da parte del debitore esaurisca l’interesse del creditore, in quanto la prestazione del sanitario non si risolve sic et simpliciter nella guarigione del paziente.
L’evento, in relazione al quale verificare il nesso causale, viene rinvenuto nella lesione dell’interesse primario (salute) e non dell’interesse strumentale (cioè non l’inadempimento in sé): di guisa che l’inadempimento della prestazione sanitaria non porta di per sé a concludere anche per la sussistenza di causalità materiale, dovendosi a tale scopo accertare il successivo nesso tra inadempimento e lesione dell’interesse primario (appunto, il bene salute).
Insomma, la guarigione non è estranea al rapporto contrattuale, rappresentandone anzi lo scopo primario, e si pone non come oggetto della prestazione sanitaria, bensì come scopo ulteriore e distinto, da perseguirsi a mezzo del corretto adempimento dell’obbligazione.
Per l’inadempimento, invece, la Corte conferma la sufficienza della allegazione.
[13] La stessa Cass. Civ., sez. III, 11/11/2019, n. 28991, riferisce di un “assestamento in corso della giurisprudenza sulla questione del nesso causale”.
[14] Cfr. sempre Cass. Civ., sez. III, 11/11/2019, n. 28991; in seguito, in senso conforme, ex plurimis cfr. Cass. Civ., sez. III, 25/01/2023, n. 2353, Cass. Civ., sez. III, 29/11/2022, n. 35024; Cass. Civ., sez. III, 29/03/2022, n. 10050.
[15] Così Cass. Civ., sez. III, 11/11/2019, n. 28991.
§ 6.2 La presunzione del nesso causale
Tutto ciò detto, è importante rilevare che la Suprema Corte ha comunque ammesso una presunzione di causalità in tutti quei casi in cui non sia possibile ricostruire compiutamente il nesso causale proprio in ragione della incompletezza della cartella clinica o per l’omesso compimento di altri adempimenti gravanti sul sanitario.
In questi casi, si è detto, il nesso causale si avrà per provato ogni qualvolta la condotta contestata (commissiva od omissiva) sia da ritenersi astrattamente idonea a cagionare l’evento[16].
Si è così sostenuto che il difetto di un determinato accertamento non può essere invocato “da chi quell’accertamento avrebbe potuto compiere e non l’abbia, invece, effettuato”[17].
[16] Cfr. Cass. Civ., sez. III, 31/03/2016, n. 6209; Cass. Civ., sez. III, 27/04/2010, n. 10060.
[17] Cfr. Cass. Civ. Sez. III, 17/02/2011, n. 3847; in seguito, ex plurimis, Cass. Civ., sez. III, 20/11/2020, n. 26428; Cass.Civ., sez. III, 16/11/2020, n. 25877; Cass. Civ., sez. III, 21/11/2017, n. 27561;, Cass. Civ., sez. III, 31/03/2016, n. 6209.
§ 6.3 La prova presuntiva del nesso causale: conclusione
In conclusione, si ribadisce che il nesso causale non deve intendersi come un fatto, bensì come una relazione tra accadimenti: per cui la prova della causalità si esprime tramite un giudizio di tipo logico, che come tale necessita di passaggi inferenziali fondati sulle risultanze processuali disponibili.
Ora, la stessa giurisprudenza che ha posto a carico del paziente l’onere probatorio ha sempre confermato che la prova del nesso causale può essere fornita con ogni mezzo, anche per presunzioni.
Il legislatore annovera le presunzioni tra i mezzi di prova, e le definisce come “le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato” (art. 2727 c.c.).
In tal senso, il giudice potrà utilizzare lo strumento presuntivo non soltanto per concludere sulla sussistenza della relazione tra accadimenti, ma anche ogni qualvolta le risultanze processuali siano incerte rispetto ai due termini del giudizio relazionale (condotta ed evento), nel senso che alcuni loro attributi (il quando, il dove, ecc.) restino dubbi.
Il dato per cui un certo fatto (od un sua qualità) resti ignorato, dunque, non esclude la prova fintantoché da altri fatti noti si possa inferire la sua sussistenza (pur sempre in termini di probabilità).
Si pensi, ad esempio, al caso della infezione correlata all’assistenza sanitaria: se un soggetto entra in ospedale per sottoporsi a un certo intervento chirurgico; se dagli esami preoperatori risulta che quel paziente non è affetto da alcuna colonizzazione od infezione batterica; se in ospedale viene poi sottoposto all’intervento chirurgico ed alle correlate terapie; se prima delle dimissioni emerge la positività ad un determinato esame colturale, magari proprio per un batterio tipicamente nosocomiale; allora il giudice dovrà dedurre (per presunzione) che l’infezione è stata contratta in ospedale.
Res ipsa loquitur, afferma la giurisprudenza: il fatto stesso del contagio infettivo documenta la sussistenza di nesso causale fra il trattamento sanitario e l’evento di danno. Si tratta, dunque, di un’applicazione dello strumento presuntivo quale mezzo di prova.