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Impresa Familiare e Società di Fatto – Tutela d’Urgenza per la Reintegrazione

Successo giudiziale per lo Studio nel proc. ex art. 700 c.p.c.

Lo Studio ha assistito con successo un coniuge contro la richiesta di provvedimento ex art. 700 c.p.c. avanzata dall’altro coniuge, che pretendeva di essere reintegrato nella propria condizione di collaboratore dell’impresa familiare, da cui lamentava di essere stato arbitrariamente estromesso dopo la separazione.

 

La richiesta cautelare avanzata dal marito

Con ricorso ex art. 700 c.p.c., un marito ha convenuto in giudizio la moglie assumendo che, ad onta della qualificazione formale in chiave di impresa familiare dell’attività di ristorante esercitata da quest’ultima, egli sarebbe stato in realtà socio di una «società irregolare», dalla quale sarebbe stato inopinatamente estromesso dopo la crisi coniugale culminata in una separazione.

Chiedeva pertanto che:

«l’Ill.mo Tribunale adito, con decreto inaudita altera parte o, in subordine, con ordinanza previa comparizione delle parti, voglia ordinare ex art. 700 c.p.c. 1) la reintegrazione in qualità di socio di fatto al 50%, del sig. A.A. nella società irregolare avente ad oggetto la gestione del ristorante sito in P. con tutti i conseguenti diritti e facoltà (di gestione, amministrazione, rappresentanza ecc.), e per l’effetto ordinare alla signora Z.Z. […] di consentire al signor A.A. di prestare la propria attività, di partecipare agli utili, di prendere visione dei registri e in generale di compiere gli atti di decisione, amministrazione e gestione ricollegabili allo status di socio. Con vittoria di spese diritti ed onorari di causa».

 

L’insussistenza dei presupposti dell’istanza cautelare. In particolare, la mancanza del fumus boni iuris

Il signor A.A. asseriva di esser stato socio di fatto di una «società irregolare» avente ad oggetto la gestione del ristorante sito nella piazza principale di P. Tuttavia, la stessa esposizione dei fatti e i documenti prodotti da controparte smentivano chiaramente tale assunto.

Invero, titolare dell’omonima impresa individuale era sempre stata la signora Z.Z., mentre il coniuge A.A. aveva soltanto prestato la propria attività lavorativa vedendosi riconosciuti il mantenimento, nonché, proporzionalmente alla quantità e qualità del lavoro svolto, anche la partecipazione agli utili e agli incrementi dell’azienda. Era lo stesso A.A., del resto, che spiegava in maniera convincente le ragioni di tale scelta, quando, nello stesso ricorso introduttivo, sottolineava che la decisione di costituire una impresa familiare «venne assunta prevalentemente al fine di rendere flessibile la figura del A.A. che in caso di difficoltà aziendale avrebbe ben potuto tornare a svolgere un lavoro dipendente».

È chiaro allora che, durante i propri turni lavorativi, il signor A.A. potesse essersi trovato (non diversamente da qualsiasi altro collaboratore) a trattare direttamente con i fornitori, sia per gli ordini di merci sia per le consegne o i resi delle stesse. Ma si era trattato di comportamenti attuati in uno spirito di collaborazione – oltre che di affectio coniugalis – del A.A. nei confronti dell’allora moglie-imprenditrice, dai quali non poteva desumersi alcuna autonomia di gestione né, tantomeno, una pretesa contitolarità dell’impresa. Lo stesso dicasi per il compimento, da parte del A.A., di operazioni bancarie sul conto corrente aperto presso la Banca Alfa di P., cointestato ad entrambi i coniugi ed utilizzato in modo promiscuo sia per lo svolgimento dell’attività della signora Z.Z. sia per le ordinarie necessità della famiglia.

Ad ogni modo, risultava dirimente sul punto la considerazione di un documento: la scrittura privata intitolata «RICONOSCIMENTO DI IMPRESA FAMILIARE», la quale rappresentava un negozio – di accertamento o, per l’appunto, ricognitivo – col quale i coniugi avevano esplicitamente affermato e reciprocamente riconosciuto che la signora «Z.Z. è titolare dell’omonima impresa individuale corrente in P.» e che il signor «A.A. presta in modo continuativo e prevalente, senza vincoli di subordinazione, la propria attività di lavoro nella citata impresa».

Il ricorrente, invece, pretendeva di superare il contenuto della scrittura ridetta a mezzo di prove orali, finalizzate ad affermare – come detto – la propria qualità di socio di fatto di una pretesa «società irregolare». Tuttavia, com’è noto, una ipotetica simulazione dell’accordo formalmente intervenuto non sarebbe potuta essere provata dalle parti – come si pretendeva ex adverso – per testimoni, bensí soltanto attraverso la produzione della cd. controdichiarazione scritta (che non esisteva perché non esisteva alcuna simulazione). Infatti:

  • ai sensi dell’art. 2722 c.c., «La prova per testimoni non è ammessa se ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea»;
  • ai sensi dell’art. 1417 c.c. la prova per testimoni della simulazione è ammissibile, tra le parti, solo allorquando sia diretta a far valere l’illiceità del contratto dissimulato (e non si trattava evidentemente del caso in esame).

 

Il provvedimento del Tribunale

Nell’accogliere le richieste avanzate dallo Studio legale Chiarini, il Giudice ha ritenuto che non esistesse il fumus boni iuris della pretesa avanzata in via cautelare, risultando peraltro smentito per tabulas che il signor A.A. potesse vantare quel diritto di socio a tutela del quale aveva richiesto il provvedimento ex art. 700 c.p.c.

La richiesta cautelare avversaria è stata, dunque, rigettata per mancanza dei relativi presupposti, con vittoria di spese, diritti ed onorari di lite in favore della signora Z.Z.

 

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