Home » Media » Nesso di causa e stati pregressi del danneggiato

Nesso di causa e stati pregressi del danneggiato

Concorso di caso fortuito (pregressa patologia) e causa umana (errore sanitario)

Deve essere segnalata la pronuncia di Cass. III, 16 gennaio 2009, n. 975 (in Corr. giur., 2009, 12, p. 1653), la quale ha elaborato un interessante principio per il caso in cui l’indagine probabilistica non consenta di decidere la controversia per essersi l’evento dannoso prodotto per un concorso di caso fortuito (in particolare, per la pregressa grave situazione patologica del Paziente) e causa umana (l’errore sanitario).

In tale ipotesi, ad avviso della Suprema Corte, il giudice del merito dovrà procedere alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile all’uno o all’altra, eventualmente con criterio equitativo, provvedendo conseguentemente alla riduzione proporzionale del risarcimento.

 

Le critiche all’orientamento e la posizione successivamente maturata dalla Suprema Corte

La pronuncia è stata fatta oggetto di critiche in dottrina per aver collocato il problema della rilevanza degli stati pregressi della vittima (a rilevanza solo concausale) sul piano dell’accertamento eziologico, piuttosto che su quello della individuazione delle conseguenze risarcibili ex art. 1223 c.c. Nondimeno, non sembrava irragionevole la conclusione secondo cui, qualora la produzione di un evento dannoso per il Paziente sia riconducibile alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla situazione patologica del soggetto deceduto, debba essere attribuita – anche con criteri equitativi – all’autore della condotta dannosa la parte di responsabilità correlativa, così da lasciare a carico del danneggiato il peso del danno la cui produzione ha concorso a determinare il suo stato personale.

Ad ogni modo, come noto, questo orientamento è stato esplicitamente, e definitivamente, superato a partire da Cass. III, 21 luglio 2011, n. 15991, la quale – in dichiarato dissenso rispetto alla pronuncia di Cass. 975/2009 – ha formulato la seguente massima:

Qualora la produzione di un evento dannoso (nella specie una gravissima patologia neonatale, concretatasi in una invalidità permanente del 100%) possa apparire riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla pregressa situazione patologica del danneggiato non legata all’anzidetta condotta da un nesso di dipendenza causale, il giudice, accertata — sul piano della causalità materiale — l’efficienza eziologica della condotta rispetto all’evento, in applicazione della regola di cui all’art. 41 c.p., così ascrivendo l’evento di danno interamente all’autore della condotta illecita, può poi procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause sul piano della causalità giuridica onde ascrivere all’autore della condotta, responsabile «tout court» sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non ricomprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all’evento di danno bensì alla pregressa situazione patologica del danneggiato (da intendersi come fortuito)“.

Cass. III, 21 luglio 2011, n. 15991

ARGOMENTI CORRELATI

Ecco il testo integrale della sentenza Cass. III, 16 gennaio 2009, n. 975

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto 5 gennaio 1988 F.E. e M.V., moglie e figlio di M.I., deceduto il (OMISSIS) hanno convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Prato, la USL n. (OMISSIS), Area (OMISSIS), chiedendo che, accertata la responsabilità di quest’ultima quanto al decesso del proprio congiunto M.I., la stessa fosse condannata al risarcimento dei danni materiali e morali, nella misura ritenuta di giustizia, oltre rivalutazione monetaria e interessi. Hanno esposto gli attori, a fondamento della spiegata domanda, che i sanitari dipendenti dalla convenuta erano incorsi in gravi omissioni e imperizie, per avere nel compiere l’operazione di simpaticectomia lombare farmacologica perforato il tratto protesico dell’aorta del M.I.: tale perforazione, a causa della assoluta inidoneità delle parti sintetiche dell’aorta, aveva causato una emorragia sviluppatasi nell’arco di tre giorni che poi aveva condotto all’infarto e, quindi, alla morte del paziente. Costituitasi in giudizio la USL convenuta ha resistito alla avversa domanda, deducendone la infondatezza. Svoltasi la istruttoria del caso, nel corso della quale il giudizio è stato interrotto a causa della soppressione della USL e riassunto nei confronti della Gestione Stralcio Liquidatoria, l’adito tribunale con sentenza 17 ottobre 2000 ha dichiarato la convenuta responsabile della morte di M.I. e la ha condannata al pagamento della somma di L. 406.700.500 in favore di ciascuno degli attori, oltre accessori di legge. Gravata tale pronunzia dalla Gestione Liquidatoria ex Usl (OMISSIS) Area (OMISSIS), nel contraddittorio di F.E. e M.V., che costituitisi in giudizio hanno eccepito in rito la inammissibilità dell’appello e, nel merito, la sua infondatezza, la Corte di appello di Firenze con sentenza 10 dicembre 2002 – 6 marzo 2003, in totale riforma della sentenza del primo giudice ha rigettato la domanda attrice. Per la cassazione di tale ultima pronunzia, non notificata, hanno proposto ricorso, affidato a 4 motivi, F.E. e M.V., con atto 8 aprile 2004 e date successive. Resiste, con controricorso e ricorso incidentale, affidato a un motivo, la Gestione Liquidatoria ex art. Usl (OMISSIS) Area (OMISSIS), con atto 19 maggio 2004. Entrambe le parti hanno presentato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I vari ricorsi, avverso la stessa sentenza devono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c.

2. Sulla questione preliminare secondo cui il procedimento di appello risulta essere stato patrocinato da professionista non legato da rapporto di lavoro con l’ente unico titolare dei rapporti sostanziali (Gestione Liquidatoria della soppressa USL n. (OMISSIS) Area (OMISSIS)) ma da rapporto di lavoro con la neocostituita Azienda USL n. (OMISSIS) – i giudici di secondo grado hanno, testualmente, affermato “questa Corte si limita a richiamare un consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, poichè le Regioni attribuiscono ai direttori generali delle aziende sanitarie locali le funzioni di commissario liquidatore delle cessate unità sanitarie locali ai sensi della L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 2, e che detti direttori sono autorizzati ad avvalersi, per tali funzioni, delle strutture operative delle ASL “deve ritenersi che gli avvocati interni di queste aziende possano esercitare lo ius postulandi anche per conto delle gestioni liquidatorie delle USLL, richiamando, al riguardo, l’autorità di Cass. 12 agosto 2000, n. 10778.

3. Con il primo motivo i ricorrenti principali censurano nella parte de qua la sentenza gravata denunziando “violazione e falsa applicazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 3, u.c., lett. b, come convertito con L. n. 36 del 1934 e modificato con L. n. 1949 del 1939, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte di Appello ritenuto che l’avvocato che ha patrocinato il procedimento di appello, dipendente della neocostituita Azienda USL n. (OMISSIS) potesse esercitare lo ius postulandi anche in favore della Gestione Liquidatoria della soppressa USL n. (OMISSIS) Area (OMISSIS). Si osserva, in particolare, che gli avvocati degli enti pubblici possono essere iscritti nell’elenco speciale di cui al ricordato R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, comma 4, lett. b, sul presupposto, imprescindibile, della esclusività dell’espletamento – da parte loro – dell’attività di assistenza e difesa dell’ente presso il quale prestano la propria opera, nelle cause e negli affari dell’ente stesso, e – quindi – non di altri.

4. Il motivo non può trovare accoglimento. Ancorchè, infatti, nel passato, sulla specifica questione, sia stato espresso da questa Corte il principio secondo cui il passaggio di un avvocato già dipendente di una soppressa USL alle dipendenze di un diverso ente di nuova costituzione (nella specie, Azienda Ospedaliera (OMISSIS), ex L.R. Campania 3 novembre 1994, n. 32) preclude qualsiasi possibilità di persistenza dello jus postulandi rispetto all’organismo di provenienza (in tale senso, in particolare, Cass., sez. un., 6 giugno 2000, n. 418), la più recente giurisprudenza di questa Corte regolatrice è – con specifico riferimento al quadro normativo sopravvenuto per effetto della L. 28 dicembre 1995, n. 549 – pressochè consolidate in senso diverso. In molteplici occasioni, infatti, questa Corte ha affermato che in attuazione del principio posto dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 2, comma 14, – secondo cui le regioni attribuiscono ai direttori generali delle aziende sanitarie locali le funzioni di commissario liquidatore delle cessate unità sanitarie locali – le varie leggi regionali precisano che detti direttori generali si avvalgono, per tali funzioni, delle strutture operative delle ASL (cfr., con riguardo alla regione Toscana, L.R. 21 ottobre 1997, n. 75, art. 3, comma 2: “i Commissari Liquidatori per lo svolgimento delle funzioni relative alle gestioni liquidatorie si avvalgono delle strutture organizzative delle Aziende unità sanitarie localii). Deriva da quanto precede, precisa la ricordata giurisprudenza, che gli avvocati interni di queste aziende possono esercitare lo ius postulandi anche per conto delle gestioni liquidatorie delle USL. Ciò, nel quadro di un fenomeno – non sconosciuto al diritto amministrativo – di utilizzazione da parte di un ente dell’ufficio di un altro ente. Tale fenomeno, come noto, con riguardo ai rapporti Stato – Regioni anteriormente alla Legge Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, che, tra l’altro, ha modificato l’art. 118 Cost., ha il proprio fondamento nell’art. 118 Cost., comma 3, nella sua formulazione originaria, secondo cui, in particolare “la regione esercita normalmente le sue funzioni amministrativa delegandole alle provincie, ai comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro ufficii. Posto che in applicazione di tale precetto costituzionale la Regione Toscana si è avvalsa (con la L.R. 21 ottobre 1997, n. 75, ricordata sopra) degli uffici delle Ausl per coadiuvare il relativo direttore generale nell’esercizio della funzione di titolare della gestione liquidatore delle Usl soppresse comprese nel territorio di quella Ausl, è palese che detti direttori generali legittimamente si sono avvalsi, come nella specie, degli uffici legali delle Ausl. In applicazione degli stessi principi, del resto, già il D.L. 28 febbraio 1983, n. 85, art. 4, comma 11, convertito con L. n. 131 del 1983, aveva attribuito agli uffici legali dei comuni le cause delle USL che non disponessero di un proprio ufficio legale (cfr., al riguardo, ad esempio, Cass., sez. un., 27 gennaio 1993, n. 1005). Da ultimo, infine, non può non sottolinearsi che essendo, nella specie, legislativamente prevista (in puntuale applicazione del disposto costituzionale) la utilizzazione, da parte di un ente (gestione liquidatoria della Usl) dell’ufficio di un altro ente ufficio legale della Ausl, anche gli “affarii del primo ente possono ritenersi quali “affarii del secondo, ai fini del rispetto del disposto del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, u.c., lett. b), secondo cui gli avvocati degli uffici legali istituiti presso enti pubblici, ed iscritti all’albo speciale, possono svolgere le loro funzioni “per quanto concerne le cause ed affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro operaa (in questo senso, tra le altre, Cass. 16 maggio 2008, n. 12402; Cass. 23 settembre 2000, n. 12622; Cass. 23 settembre 2000, n. 12615; Cass. 12 agosto 2000, n. 10778).

5. I giudici di secondo grado hanno rigettato la domanda proposta da F.E. e M.V. nei confronti della Usl, evidenziando che nel caso di specie… entrambe le consulenze tecniche espletate sul punto lasciano margini di dubbio considerevoli che non risultano nè contraddetti nè superati da altri elementi probatori, anche presuntivi, idonei a quel giudizio di persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale che, in ambito civile, diventa onere della prova a carico della parte che lo assume. Con la prima CTU – evidenziano i giudici a quibus – si conclude: “l’errore dell’operatore non influì nel determinismo dell’evento mortale che derivò da una insufficienza miocardia grave e pregressa, già realizzata da un primo infarto e manifestamente precipitata dal secondo. Il rapporto del deficit coronario responsabile del secondo infarto con un difetto irrorativo da ipotensione non è affatto sostenibile posto che manca qualsiasi elemento clinico dimostrativo di uno stato ipovolemico di tale gravità da indurre un deficit coronario produttivo dell’infarto del miocardio. Non furono infatti annotati nè tachicardia nè ipotensione nè sudorazione nè sete intensa, quei sintomi cioè che sarebbero stati ben invece rilevati se presenti e che non mancano mai in caso di shock ipovolemicoo; conclusivamente se è emerso che “in occasione di uno degli interventi di blocco del simpatico lombare cui fu sottoposto il M.I. si realizzarono lesioni vascolari e renali per grave negligenza dell’operatore… l’errore del sanitario non influì comunque nel decesso del M.I. che fu determinato da infarto acuto del miocardioo. Anche se più possibilista in tale ricostruzione eziologica è la CTU dei proff. A.P. e C.A. – evidenziano ancora i giudici a quibus – si tratta pur sempre di mera ipotesi: “le lesioni renale ed aortica rinvenute alla autopsia del cadavere di M.I. sono da attribuirsi ad un comportamento colposo dei sanitari che attuarono il blocco del simpatico. La possibilità che detta lesività aortica abbia potuto avere efficienza concausale nel determinismo dell1 infarto cardiaco causativo la morte del M.I., pure se non escludibile in linea puramente teorica, non può essere dimostrata e quindi affermata con certezzaa. La spiegazione – sottolinea la sentenza impugnata – che si da a tale conclusione è in piena sintonia con il ragionamento seguito dal primo CTU: “…. l’appena citata ipotesi patogenetica della cardiopatia letale, pur se ragionevolmente sostenibile in linea puramente teorica e sulla scorta anche del mero dato cronologico, non può a nostro avviso, essere indicata con assoluta certezza come quella che effettivamente determinò – o concorse a determinare – l’insorgenza della cardiopatia ischemica causativa la morte del M.I., non potendo essere suffragata tale ammissione, nello specifico caso in esame, non solo dall’impossibilità di potere conferire alla coazione della anemia con la preesistente patologia vascolare una preliminare, anche generica, attribuzione di necessarietà, requisito questo peculiare degli antecedenti in qualche modo causativi – o concausativi – un determinato evento, ma anche dal non essersi evidenziati quei sintomi clinici dello shock, quali la polipnea, il pallore e la sudorazione fredda, l’acrocianosi dei prolabi, la tachicardia, ecc… che sempre concomitano con anemie disfunzionalmente rilevanti in modo tanto evidente da non poter sfuggire neppure alla più disattenta delle osservazionii. La ipotesi causale indicata dagli attori – evidenzia conclusivamente la pronunzia gravata – non solo non risulta provata ma addirittura è stata smentita nella prima CTU o comunque, nella seconda CTU, è tutt’altro che provata con quel rigore che il nuovo orientamento giurisprudenziale sul rapporto causale esige e vi è poi una pregressa grave situazione patologica del paziente deceduto che, di per sè sola, potrebbe ben spiegare l’evento letale: “la situazione clinica del M.I. era caratterizzata da più elementi, sintetizzabili in arteriosclerosi grave pluridistrettuale, pregresso infarto miocardio ventri colare sinistro, pregresso intervento di protesi vascolare arteriosa aortoiliaca (termine preferibile a by pass, dato che non è rimasto in sede il tratto vasale sostituito) in soggetto con diabete mellito ed ipertensione arteriosa, le condizioni cardiache sono identificate dai dati macroscopici emersi dalla sezione cadaverica, rappresentate da cardiomegalia ecc…”.

6. I ricorrenti censurano la sentenza gravata nella parte de qua con i restanti motivi del loro ricorso con i quali denunziano, in particolare: – da un lato “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa alcuni punti decisivi della controversia ex art. 360 c.p.c., n. 5, per avere completamente trascurato alcuni fatti ed elementi fondamentali ai fini dell’accertamento della sussistenza del nesso causalee secondo motivo; – dall’altro “violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 c.p.c. e omessa insufficiente o contraddittoria motivazione, circa altro punto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., n. 5 per avere attribuito alla preesistente situazione clinica del paziente deceduto rilievo in ordine al verificarsi dell’evento mortee terzo motivo; – da ultimo “violazione e falsa applicazione degli art. 1218 e 2697 c.c. per avere ritenuto che la prova del nesso di causalità tra il comportamento colpevole dei medici dell’ospedale di (OMISSIS) e la morte di M.I. gravasse sugli attori appellati ed anche omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa altro punto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., n. 55 quarto motivo.

7. I riassunti motivi sono fondati. Alla luce delle considerazioni che seguono.

7. 1. Come accennato sopra è rimasto accertato – in linea di fatto -che i medici dell’ospedale, nell’eseguire un intervento prodromico simpaticectomia lombare farmacologia (ovvero blocco epidurale) a scopo sintomatico – in funzione di una successiva – inserimento di un bay pass femoro – popliteo alla gamba destra – avevano cagionato un’emorragia. Si è trattato di stabilire se l’emorragia sia stata poi causa di uno shock ipovolemico, cioè una diminuzione della massa sanguigna circolante, causa a sua volta di un infarto, in soggetto già infartuato e la sua morte o se questo infarto sia sopravvenuto per un fattore autonomo, in sostanza come naturale sviluppo dello stesso stato di salute in cui il paziente era al momento del ricovero, stato caratterizzato da difettosa irrorazione sanguigna degli arti inferiori. Lo si è negato in base a due considerazioni: da una parte la mancata rilevazione di indici esteriori rivelatori dello shock ipovolemico, che invece di norma si producono; dall’altra il fatto che se lo shock ipovolemico può concorrere a determinare la reiterazione dell’infarto, che ciò sia avvenuto in concreto non può essere considerato accertabile con assolutezza certezza, deponendo a suo favore solo il dato cronologico.

7. 2. In conformità a quanto costantemente ribadito da questa Corte regolatrice, e in termini diversi, rispetto a quanto assume la sentenza gravata, osserva il collegio che in tema di responsabilità professionale del medico ove sia dedotta una responsabilità contrattuale dell’ente ospedaliero e/o del medico per inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è a carico del danneggiato solo la prova del contratto (o del contatto) e la prova dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie) e del relativo nesso di causalità; con l’azione o l’omissione dei sanitari, restando a carico di questi ultimi la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile (Cass. 11 novembre 2005, n. 22894; Cass. 9 novembre 2006 n. 23918; Cass. 24 maggio 2006, n. 12362; Cass. 28 maggio 2004 n. 10297). L’insuccesso o il parziale successo dell’intervento, nei casi in cui si tratta di intervento con alte possibilità di esito favorevole, implica di per se la prova del predetto rapporto di causalità (in tal senso, ad esempio, Cass. 22 gennaio 1999, n. 589; Cass. 26 ottobre 1998, n. 10624; Cass. 30 maggio 1996 n. 5005). Se è vero, infatti, che il mancato o incompleto raggiungimento del risultato non può, di per se, implicare inadempimento (o inesatto inadempimento) dell’obbligazione assunta dal professionista e dalla struttura ospedaliera, è anche vero che il totale insuccesso di un intervento di routine e dagli esiti normalmente favorevoli, come il parziale insuccesso che si registra nei casi in cui dall’intervento sia derivata una menomazione più gravosa di quella che era lecito attendersi da una corretta terapia della lesione o della malattia, si presenta come possibile ed altamente probabile conseguenza dell’inesatto adempimento della prestazione (o di colpevole omissione dell’attività sanitaria dovuta) e, alla stregua dei criteri di accertamento del nesso di causalità nel settore della responsabilità civile, giustifica, così, la prova della relazione causale. Del resto, nell’ottica che governa il rapporto contrattuale la regola che deve essere applicata è quella di carattere generale secondo cui il creditore che agisce per il risarcimento del danno conseguente al dedotto inadempimento della obbligazione deve solo provare la fonte negoziale (o legale) del suo diritto ed allegare l’inadempimento del suo debitore, essendo quest’ultima, parte onerata della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento (Cass., sez. un. 30 ottobre 2001, n. 13533) o dall’esatto adempimento. Ora, l’oggetto della obbligazione di cui si discorre è quello di una attività medica professionalmente adeguata ed impegnata, come è dimostrato dalla stessa possibilità di prova della corretta esecuzione della prestazione e dalla possibilità, per tale via, di esonero da responsabilità, sia sotto il profilo della relazione causale altrimenti desumibile dalle caratteristiche proprie dell’intervento in relazione alla probabilità del risultato favorevole, sia sotto il profilo della (assenza di) colpa, nonostante l’insuccesso (totale o parziale). Che la prova della conformità del comportamento tenuto a quello esigibile nel caso concreto gravi sul professionista e sulla struttura sanitaria, come è stato avvertito nelle citate sentenze 9 novembre 2006, n. 23918, e 28 maggio 2004, n. 10297, si allinea, del resto, alla linea evolutiva della giurisprudenza che, in tema di onere della prova, tende ad accentuare il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento della effettiva possibilità, per l’una o per l’altra parte, di fornirla. In altri termini, nel cosiddetto sottosistema civilistico, il nesso di causalità (materiale) – la cui valutazione in sede civile è diversa da quella penale (ove vale il criterio dell’elevato grado di credibilità razionale che è prossimo alla “certezza”) – consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio (ispirato alla regola della normalità causale) del “più probabile che nonn. Esso si distingue dall’indagine diretta all’individuazione delle singole conseguenze dannose (finalizzata a delimitare, a valle, i confini della già accertata responsabilità risarcitoria) e prescinde da ogni valutazione di prevedibilità o previsione da parte dell’autore, la quale va compiuta soltanto in una fase successiva ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo (colpevolezza) (Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619). In tema di responsabilità civile il giudice di merito, conclusivamente, deve accertare separatamente dapprima la sussistenza del nesso causale tra la condotta illecita e l’evento di danno, e quindi valutare se quella condotta abbia avuto o meno natura colposa o dolosa, con la conseguenza – quindi – che, nell’ipotesi di responsabilità del medico, è viziata la decisione la quale escluda il nesso causale per il solo fatto che il danno non potesse essere con certezza ascritto ad un errore del sanitario, posto che il suddetto nesso deve sussistere non già tra l’errore ed il danno, ma tra la condotta ed il danno, mentre la sussistenza dell’eventuale errore rileverà sul diverso piano della imputabilità del danno a titolo di colpa (Cass. 26 giugno 2007, n. 14759).

7. 3. Non essendosi i giudici del merito attenuti ai sopra ricordati principi la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio della causa per nuovo esame alla stessa Certe di appello di Firenze, in diversa composizione, alla luce delle regole di cui sopra.

7. 4. Come accennato sopra i giudici del merito hanno accertato l’esistenza – a carico del M.I. – di una pregressa situazione patologica del paziente deceduto che, di per sè sola, potrebbe in tesi ben spiegare l’evento letale. Certo quanto sopra è evidente che qualora l’indagine imposta dall’accoglimento del ricorso sotto il profilo di cui sopra, non consentisse di decidere la controversia per essersi, in realtà – come pur si adombra, in linea di fatto, nella sentenza impugnata – l’evento prodotto per un concorso di caso fortuito (in particolare alla luce dei dati macroscopici emersi dalla sezione cadaverica “pregressa grave situazione patologica del paziente deceduto che, di per sè sola, potrebbe ben spiegare l’evento lettalee) e causa umana (cioè errore dei sanitari) sarà compito del giudice del merito procedere alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile all’uno o all’altra, eventualmente con criterio equitativo. Come già affermato da risalente giurisprudenza, infatti, deve ritenersi legittimo il ricorso alla applicazione della norma di cui all’art. 1226 c.c., ogni qualvolta si sia in presenza di uguale necessità, rispondendo l’interpretazione estensiva della citata norma, di per sè corretta, anche a ragioni di giustizia sostanziale, che impediscono di addossare tutto il risarcimento del danno al responsabile di una sola porzione di esso (cfr. Cass. 6 dicembre 1951, n. 2732, nonchè Cass. 18 ottobre 1955, n. 3256 e Cass. 13 marzo 1950, n. 657). In particolare qualora la produzione dell’evento dannoso risalga, come a sua causa, alla concomitanza di una azione dell’uomo e di fattori naturali (i quali ultimi non siano legati alla prima da un nesso di dipendenza causale) non si può accogliere la soluzione della irrilevanza di tali fattori. A parte il ricordato principio di equità, infatti, ricorrono ragioni logico giuridiche le quali consentono di procedere a una valutazione della diversa efficienza delle varie concause e di escludere che l’autore della condotta umana debba necessariamente sopportare nella loro integralità le conseguenze dell’evento dannoso. Non può ostare a questa conclusione la norma dell’art. 2055 c.c., comma 1, (secondo cui “se il fatto dannoso è imputabile a più persone tutte sono obbligate in solido al risarcimento del dannoo). Questa regola è, in realtà, la ripetizione, nel settore della responsabilità aquiliana del principio di solidarietà, avente portata generale nel nostro ordinamento positivo (art. 1294 c.c.); anche per tale settore è stata tradotta in regola positiva la tendenza a favorire il danneggiato – creditore mediante il rafforzamento della tutela del suo diritto al risarcimento. Al riguardo – come già osservato in altra peraltro non recente occasione da parte di questa Corte regolatrice (cfr., Cass. 25 ottobre 1974, n. 3133, specie in motivazione) si osserva che qualora la condotta imputabile a un unico soggetto abbia agito in concomitanza con forze estranee, la circostanza elimina il presupposto fondamentale della citata disposizione, consistente nel concorso di più cause imputabili a soggetti diversi. Ciò comporta l’ulteriore rilievo che per tali ragioni non può entrare in funzione il correttivo che, nei rapporti interni, il diritto di regresso introduce nel principio di solidarietà. Ma è più importante osservare che, stando alla sua formulazione testuale, l’art. 2055 c.c., comma 1, disciplina l’ipotesi in cui l’accertamento dell’esistenza del nesso di causalità sia già avvenuto e sia sfociato nella identificazione di più concause umane imputabili: solo quando tale presupposto si sia realizzato, sorge il diritto del danneggiato di pretendere da ciascun coautore dell’illecito l’integrale risarcimento del danno. A sua volta l’art. 2055 c.c., comma 2, stabilisce che “colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalle gravità della rispettiva colpa e della entità delle conseguenze che ne sono derivatee. Ciò significa in primo luogo che nei rapporti interni fra condebitori è perfettamente legittima, ed anzi doverosa, una scissione del nesso causale nelle sue diverse componenti, secondo l’efficienza dei singoli apporti; ma significa anche che il frazionamento della responsabilità non è estraneo al sistema positivo. Della stessa soluzione danno testuale conferma le regole dettate dall’art. 1227 c.c. nelle quali è preciso il riferimento della possibilità della scissione – stavolta con rilevanza verso l’esterno -del nesso causale sulla base del principio che la responsabilità va proporzionata alle conseguenze che si riconnettono ad una determinata causa imputabile. Sotto la medesima ratio si può ricondurre il caso in cui l’evento letale, sia la conseguenza del concorso della condotta del sanitario con la situazione patologica del soggetto deceduto, non essendovi ragione per usare al fattore causale meramente naturale un trattamento diverso rispetto a quello riservato al fatto dello stesso danneggiato. L’ostacolo che a questa soluzione dovrebbe opporre la norma dell’art. 1221 c.c., comma 1 (in cui viene regolata la perpetuatio obligationis) non può ritenersi sussistente: e non tanto perchè si tratta di norma non inclusa fra quelle richiamate dall’art. 2056 c.c., quanto per il duplice motivo che si tratta di regola peculiare della materia dell’inadempimento delle obbligazioni e che essa suppone risolto preventivamente il problema della causalità, giacchè si occupa della disciplina della impossibilità dell’adempimento allorchè il debitore versi già in situazione di inadempienza. Conclusivamente deve ritenersi che allorchè vi è stato un inadempimento colposo e come non si può concludere con certezza che esso sia la causa dell’evento dannoso e neppure lo si può escludere, anzichè accollare l’intero peso del danno all’uno o all’altro soggetto, è possibile lasciare a carico del danneggiato il peso del danno alla cui produzione ha concorso a determinare il suo stato e imputare all’altro il peso del danno la cui produzione può avere trovato causa nella condotta negligente sua.

8. Rigettato il primo motivo del ricorso principale, in sintesi, devono essere accolti i restanti, con assorbimento del ricorso incidentale, cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvio della causa alla stessa Corte di appello di Firenze in diversa composizione, per nuovo esame. Il giudice del rinvio provvedere, altresì, sulle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE Riunisce i ricorsi; rigetta il primo motivo del ricorso principale; accoglie gli altri motivi dello stesso ricorso; dichiara assorbito il ricorso incidentale; cassa in relazione ai motivi accolti la sentenza impugnata; rinvia la causa, per nuovo esame, alla stessa Corte di Appello di Firenze, in diversa composizione, anche per le spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2008.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2009

Cass. III, 16 gennaio 2009, n. 975

Ti è piaciuto l’articolo? Condividilo sui Social