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Usurarietà Sopravvenuta

Usurarietà Sopravvenuta – La Consulta e l’interpretazione autentica della legge sull’usura (l’ultimo saluto all’usurarietà sopravvenuta)

Una analisi del tema all’esito della sentenza n. 29/2002 Corte costituzionale e dei successivi aggiornamenti

Indice Sommario

1. Le questioni di legittimità costituzionale del d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in l. 28 febbraio 2001, n. 24, sottoposte al vaglio del Giudice delle leggi.

La sentenza n. 29 del 2002 della Corte costituzionale[1] è stata emanata all’esito di un giudizio derivante dalla riunione di quattro procedimenti differenti, ancorché oggettivamente connessi, originati da altrettante pronunce di giudici di merito che avevano sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. 29 dicembre 2000, n. 394 (Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura), convertito con modificazioni – invero poco rilevanti in questa sede – in l. 28 febbraio 2001, n. 24.

Due delle ordinanze di remissione provengono dal Tribunale di Benevento. La prima è stata emessa, con una celerità davvero sorprendente, il 30 dicembre 2000, cioè a dire lo stesso giorno della pubblicazione del d.l. n. 394 del 2000 in Gazzetta Ufficiale (dunque addirittura prima della sua entrata in vigore, prevista come di consueto per il giorno successivo) ed è stata depositata il 2 gennaio 2001[2]. In tale provvedimento il giudice a quo ha paventato il contrasto del comma 1 dell’art. 1 del d.l. in discorso con gli artt. 3, 24, 47 e 77 della Costituzione. La disposizione in esame – si è argomentato – comporterebbe una lesione del principio di eguaglianza per un duplice ordine di motivi: da un parte perché riserverebbe irragionevolmente alle banche un trattamento di favore rispetto ai clienti, dall’altra per il proprio carattere di norma innovativa (nonostante il nomen iuris «interpretazione autentica» utilizzato dal legislatore) contrastante con l’interpretazione della l. n. 108 del 1996 pacificamente accolta in giurisprudenza. La norma denunciata, inoltre, violerebbe il diritto alla tutela giurisdizionale di coloro i quali si sono opposti alle pretese degli istituti di credito «in base al diritto vigente all’epoca della domanda»[3]; non tutelerebbe il risparmio bensí l’interesse dei banchieri ed ostacolerebbe l’accesso al credito ed alla casa di abitazione; sarebbe stato, infine, emanato in carenza degli indefettibili presupposti di necessità ed urgenza.

Nella seconda ordinanza (emessa e depositata il 4 maggio 2001)[4], il giudice beneventano, dopo la riproposizione di censure sostanzialmente analoghe a quelle avanzate con l’ordinanza del 30 dicembre 2000-2 gennaio 2001, relative alla potenziale violazione degli artt. 3, 24 e 47 cost., ha lamentato che la disposizione in discorso, nel riconoscere al prestito di denaro una redditività eccessiva e sproporzionata rispetto alla media stabilita dal libero mercato, contrasterebbe con gli artt. 35 e 41 cost., che promuovono la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e stabiliscono i limiti allo svolgimento dell’iniziativa economica privata affinché essa non risulti incompatibile con l’utilità sociale e non rechi pregiudizio alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umane.

Altra ordinanza di remissione è stata emessa e depositata in data 27 giugno 2001 dal Tribunale di Taranto[5], il quale ha espresso preliminarmente l’opinione che il d.l. n. 394 del 2000, nell’escludere la rilevanza penale della riscossione di interessi divenuti usurari successivamente alla pattuizione, abbia in realtà abrogato la figura dell’usura consistente nel «farsi dare» interessi usurari, con norma dunque innovativa – e non meramente interpretativa – dall’efficacia retroattiva anche agli effetti civili. Ciò comporterebbe – è stato sostenuto – un’irragionevole disparità di trattamento tra coloro che sono ora tenuti a corrispondere somme che precedentemente non erano dovute ed i percettori delle stesse, «ora ingiustificatamente avvantaggiati, oltre che in sede penale, anche in sede civile»[6], nonché tra gli operatori del settore creditizio che abbiano correttamente ricondotto i tassi pattuiti nel limite del tasso soglia e coloro che non l’abbiano fatto e, parallelamente, tra le rispettive controparti (in violazione dell’art. 3 cost.). La norma impugnata, infine, frustrerebbe la possibilità di agire e resistere in giudizio, sancita dall’art. 24 cost., di coloro ai quali la l. n. 108 del 1996 aveva garantito la tutela giurisdizionale.

L’ultimo provvedimento preso in considerazione dal Giudice delle leggi è l’ordinanza del 18 marzo 2001, depositata il 4 aprile 2001[7], con la quale il Tribunale di Trento ha sollevato questione di legittimità (l’unica riconosciuta fondata, seppure in limiti ben piú ristretti di quanto preteso dal remittente, come si vedrà infra, in questo paragrafo) del comma 2 del piú volte citato art. 1 del d.l. n. 394 del 2000, in riferimento al solo art. 3 cost. Il giudice trentino ha censurato l’ingiustificata disparità di trattamento che tale norma verrebbe a creare tra cliente e banca (oltre che tra singoli clienti in relazione alle specifiche situazioni), con un trattamento di favore nei confronti di quest’ultima in danno dei contraenti di mutui a tasso fisso in corso alla data di entrata in vigore del decreto, i quali non potrebbero giovarsi del cosiddetto tasso di sostituzione, ove piú favorevole, per il periodo intercorrente tra l’entrata in vigore della l. n. 108 del 1996 e l’1 gennaio 2001, ma soltanto per le rate con scadenza successiva al 2 gennaio 2001.

Nel procedere all’esame delle questioni di legittimità demandatele, la Corte costituzionale si è innanzitutto preoccupata di sgombrare il campo da quella che prima facie è apparsa priva di rilevanza, ovverosia quella sollevata dal Tribunale di Benevento con l’ordinanza del 4 maggio 2001. Nella controversia sottoposta all’esame del giudice remittente, invero, era stata accertata l’originaria usurarietà del tasso di interesse convenuto dalle parti (si trattava di un mutuo al tasso del 21%, stipulato nell’aprile 1997), ciò che avrebbe dovuto condurre ad una pronuncia di nullità della relativa clausola ex art. 1815, comma 2, c.c., senza alcuno spazio per considerazioni relative alla disposizione dell’art. 1 del d.l. n. 394 del 2000. Si comprende, allora, perché la Consulta si sia limitata a ritenere «priva di rilevanza la questione prospettata»[8], dichiarandone l’inammissibilità.

Gli ulteriori tre provvedimenti, invece, sono stati considerati ammissibili giacché rilevanti e non manifestamente infondati. Nondimeno, le questioni sollevate dal Tribunale di Benevento con l’ordinanza del 30 dicembre 2000-2 gennaio 2001, in riferimento agli artt. 3, 24, 47 e 77 cost., e dal Tribunale di Taranto con l’ordinanza del 27 giugno 2001, in riferimento agli artt. 3 e 24 cost., sono state ritenute infondate nel merito.

Preliminarmente, per quanto concerne il parametro di cui all’art. 77 cost. evocato dal Tribunale di Benevento, è stato osservato[9] «che eventuali vizi attinenti ai presupposti della decretazione d’urgenza devono ritenersi sanati in linea di principio dalla conversione in legge e che deve comunque escludersi che nella specie si versi in ipotesi di macroscopico difetto dei presupposti della decretazione», salva ovviamente l’estensione alla legge di conversione delle ulteriori censure mosse al d.l. in relazione agli artt. 3, 24 e 47 cost.

In relazione alla paventata violazione dell’art. 24 cost., il Giudice delle leggi ha precisato come l’intervento legislativo in argomento operi sul mero piano sostanziale, senza alcuna incisione sul diritto alla tutela giurisdizionale che la norma assicura in sede processuale. Per quanto attiene al canone di cui all’art. 47 cost., ha ritenuto che – conformemente alle indicazioni della stessa giurisprudenza costituzionale – il principio contenuto in tale disposizione debba essere bilanciato dal legislatore con gli altri interessi garantiti dalla Carta, sí che l’esercizio discrezionale del potere legislativo «incontra il solo limite […] della contraddizione del principio stesso»[10].

Di rilievo ed interesse decisamente superiori, invece, si mostrano le considerazioni espresse dalla Corte in ordine alle censure rivolte dai Tribunali di Benevento e Taranto all’art. 1 del d.l. n. 394 del 2000 per contrasto con l’art. 3 cost., considerazioni che rappresentano il nucleo argomentativo piú significativo della sentenza in esame. Entrambi i giudici remittenti – conformemente a quello che poteva ormai reputarsi un indirizzo giurisprudenziale consolidato[11] – hanno preso le mosse dalla considerazione che la l. n. 108 del 1996 debba considerarsi applicabile a tutti i rapporti derivanti dalla stipulazione (anche se precedente l’entrata in vigore della legge) di contratti di mutuo, ciò che determinerebbe, ogni qual volta il tasso pattuito risulti in prosieguo di tempo superiore al tasso soglia determinato in base alle rilevazioni trimestrali, la nullità sopravvenuta delle clausole determinative degli interessi (secondo il Tribunale di Benevento) ovvero la parziale inesigibilità degli interessi medesimi (secondo il Tribunale di Taranto), in ogni caso con conseguente necessaria riduzione degli interessi pattuiti alla misura corrispondente al tasso soglia. La norma denunciata, dunque, col sancire la rilevanza del solo momento della convenzione ai fini della valutazione di usurarietà del tasso di interessi, si caratterizzerebbe per l’efficacia irrazionalmente sanante della nullità (o inesigibilità) conseguente alla natura (divenuta) obiettivamente usuraria del rapporto tra mutuante e mutuatario, sí da contrastare con il generale canone di ragionevolezza e, soprattutto, con il principio di eguaglianza.

Nel contestare le deduzioni dei remittenti il Giudice delle leggi ha anzitutto precisato che, anche in assenza di una situazione di obiettiva incertezza o di contrasti giurisprudenziali nell’applicazione di una norma, non resta preclusa al legislatore la facoltà di precisare il significato di precedenti disposizioni legislative, «a condizione che l’interpretazione non collida con il generale principio di ragionevolezza»[12]. Sulla scorta di tale premessa, considerato che la ratio della l. n. 108 del 1996 si identifica col fine di combattere in maniera piú incisiva il fenomeno dell’usura, agevolando la dimostrazione degli elementi costitutivi del reato attraverso l’introduzione di parametri oggettivi e certi, nonché attraverso la previsione dell’irrilevanza dell’elemento psicologico dell’approfittamento dello stato di bisogno (relegato al rango di circostanza aggravante), la Consulta ha espresso l’opinione che «l’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, nel precisare che le sanzioni penali e civili di cui agli artt. 644 cod. pen. e 1815, secondo comma, cod. civ. trovano applicazione con riguardo alle sole ipotesi di pattuizioni originariamente usurarie, impone – tra le tante astrattamente possibili – un’interpretazione chiara e lineare delle suddette norme codicistiche, come modificate dalla legge n. 108 del 1996, che non è soltanto pienamente compatibile con il tenore e la ratio della suddetta legge ma è altresí del tutto coerente con il generale principio di ragionevolezza»[13]. In base a tale argomentazione, dunque, ha offerto senza indugio risposta negativa al quesito di illegittimità costituzionale demandatole.

L’ultimo provvedimento di remissione che la Corte ha sottoposto al proprio vaglio è, infine, l’ordinanza emessa il 18 marzo 2001 e depositata il 4 aprile 2001 dal Tribunale di Trento, recante l’unica questione di legittimità di cui è stata dichiarata, seppur soltanto parzialmente, la fondatezza. In sostanza, il giudice a quo lamentava che l’applicazione del tasso di sostituzione piú favorevole al mutuatario, previsto dai commi 2 e 3 dell’art. 1 del d.l. n. 394 del 2000, era stata dal legislatore irrazionalmente limitata alle sole rate scadenti dopo il 2 gennaio 2001, piuttosto che a tutte le rate scadenti in data successiva all’entrata in vigore della l. n. 108 del 1996. Dal canto suo, la Consulta ha, sí, riconosciuto l’irragionevolezza della limitazione, ma non a causa dell’esclusione dal beneficio delle rate con scadenza successiva alla l. n. 108 del 1996, bensí, in maniera evidentemente piú restrittiva, a cagione della mancata estensione dello stesso alle rate con scadenza a decorrere dalla data dell’entrata in vigore del decreto (cioè a dire dal 31.12.2000). In sostanza, l’art. 1, comma 2, del d.l. n. 394 del 2000, convertito in l. n. 24 del 2001, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui dispone che la sostituzione prevista nello stesso comma si applica alle rate che scadono successivamente al 2 gennaio 2001 anziché a quelle che scadono dal giorno stesso dell’entrata in vigore del decreto-legge»[14].

2. La decisione nel quadro del dibattito relativo alla disciplina dei contratti usurari, con particolare riferimento al problema dell’incidenza dello ius superveniens sui rapporti di mutuo in corso.

La pronuncia in esame si inserisce nell’àmbito dell’articolato e vivace dibattito relativo ai problemi interpretativi suscitati dalla legge sull’usura (la piú volte citata l. n. 108 del 1996), del quale segna per alcuni versi un punto d’approdo e per altri un punto di partenza; da una parte, infatti, è destinata a dissolvere ogni residuo dubbio ed incertezza in ordine all’individuazione del momento in cui deve compiersi la valutazione di usurarietà e – verosimilmente – delle conseguenze derivanti dal superamento del tasso soglia in corso di rapporto, dall’altra impone un’attenta rimeditazione dell’intero tema dei contratti usurari.

Si tratta, beninteso, di un provvedimento la cui portata appare di scarso rilievo sul piano dello ius positum, atteso che si limita a dichiarare l’illegittimità della norma impugnata (il piú volte menzionato art. 1, d.l. n. 394 del 2000) per profili che hanno ben poco a che vedere col contrasto ermeneutico sorto in tema di usura. Nondimeno, quasi paradossalmente, proprio nella parte in cui assevera la legittimità di tale disposizione, respingendo le censure da piú parti avanzate, la decisione della Consulta rivela il suo lato maggiormente significativo ed offre i piú interessanti spunti di riflessione.

In realtà, il riconoscimento dell’irragionevolezza della disposizione dell’ultimo periodo dell’art. 1, comma 2, d.l. n. 394 del 2000, che limitava l’applicabilità del cd. tasso di sostituzione alle rate successive al 2 gennaio 2002, appare senz’altro condivisibile, posto che la volontà del legislatore di escludere l’operatività della norma riguardo alle rate in scadenza nei giorni 31 dicembre 2000, 1 e 2 gennaio 2001, collide in maniera stridente con le esigenze di urgenza che, ex art. 77 cost., avrebbero dovuto imporre al Governo il ricorso allo strumento del decreto legge[15]. Eppure la censura, considerata nell’àmbito del tenore complessivo della sentenza, conserva decisamente il sapore di una concessione graziosa che il Giudice delle leggi ha voluto elargire in certo senso per compensare quella dimidiazione di tutela per i clienti delle banche, contraenti di mutui a tasso fisso, che la pronuncia in discorso è destinata a determinare[16].

Infatti, di là dall’espressione di giudizi di valore, il contenuto della decisione in esame non può non incidere profondamente sulla ricostruzione giuridica del fenomeno usurario e, in particolare, su quella della sorte di un rapporto di mutuo qualora il tasso d’interesse convenuto, lecito ab origine (vuoi perché si tratta di un contratto stipulato in epoca anteriore alla l. n. 108 del 1996, vuoi perché si tratta di un contratto stipulato durante la vigenza di tale legge con la previsione di un tasso d’interesse inferiore al tasso soglia del momento), si trovi ad essere, durante lo svolgimento del rapporto, superiore al tasso soglia determinato sulla base di una successiva rilevazione ministeriale. Si rende, allora, necessario compiere una pur breve analisi del panorama dottrinale e giurisprudenziale sul tema dell’usura, con particolare riferimento al problema dell’incidenza dello ius superveniens sui rapporti di mutuo in corso[17], al fine di procedere ad una corretta valutazione degli effetti che, sul piano ricostruttivo, discendono dalla sentenza n. 29 del 2002 della Corte costituzionale e dal sostanziale riconoscimento, dalla stessa operato, della legittimità del dato normativo contenuto nel d.l. n. 394 del 2000.

3. I problemi posti dall’entrata in vigore della l. 7 marzo 1996, n. 108: le opzioni esegetiche sull’usurarietà sopravvenuta nelle ricostruzioni della dottrina.

La l. n. 108 del 1996 ha senza dubbio segnato una svolta nell’evoluzione della disciplina normativa di quel fenomeno tanto noto quanto deplorato, qual è quello usurario. Attualmente la letteratura giuridica sul tema successiva al provvedimento è vastissima[18], sí che chiunque volesse accingersi a compierne una ricostruzione sistematica si troverebbe, attesa la copiosità e l’autorevolezza dei contributi, ad un tempo agevolato e smarrito. In questa sede, ad ogni modo, sarà sufficiente focalizzare l’attenzione sui capitoli fondamentali attraverso i quali si è andata sviluppando la storia dell’usura dopo il 7 marzo 1996, avendo cura di specificare preliminarmente che l’oggetto dell’indagine si limiterà precipuamente ai profili civilistici del tema, dedicando particolare attenzione alla considerazione dei rapporti derivanti dalla stipulazione di contratti di mutuo[19].

L’introduzione del provvedimento normativo in argomento, com’è noto, è stata determinata dall’esigenza, fortemente sentita anche a livello sociale, di offrire un efficace strumento di prevenzione e repressione del fenomeno usurario, che consentisse di utilizzare a tal fine il duplice rimedio costituito dalle sanzioni penali e civili[20]. Sotto il profilo penalistico, dunque, l’innovazione piú rilevante è consistita nelle modificazioni apportate all’art. 644 c.p., che hanno determinato una configurazione della fattispecie usuraria in chiave essenzialmente oggettivistica, in virtú della trasformazione dell’elemento soggettivo dell’approfittamento dello stato di bisogno da elemento costitutivo a semplice circostanza aggravante del reato, nonché della fissazione di un limite oltre il quale gli interessi pattuiti sono automaticamente usurari[21]; sotto quello civilistico, invece, la modificazione[22] dell’art. 1815, comma 2, c.c. («se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi») ha inteso comminare al mutuante, reo di aver preteso interessi superiori al tasso consentito, l’ulteriore sanzione della perdita totale degli interessi (mentre in precedenza l’usurarietà degli interessi convenuti comportava la loro riduzione al tasso legale), a fronte della permanenza, in capo al mutuatario, del diritto di continuare a godere del differimento del debito di restituzione[23].

In sostanza, dunque, con l’entrata in vigore della l. n. 108 del 1996 è stata introdotta una concezione unitaria dell’usura[24], in virtú della quale la stipulazione di un contratto di mutuo a titolo oneroso che contenga la previsione di un tasso d’interesse superiore al tasso soglia in vigore al momento della convenzione determina inevitabilmente l’operatività contestuale della sanzione penale e di quella civile: da un lato si configurerà per ciò solo il delitto di usura di cui all’art. 644 c.p. a carico del mutuante; dall’altro, ex art. 1815, comma 2, c.c., il contratto cosí concluso resterà bensí in vita, valido ed efficace, ma epurato della clausola feneratizia usuraria, divenendo quindi, da oneroso, un mutuo gratuito[25].

Purtuttavia, sin dalle prime applicazioni, si sono registrate in dottrina e giurisprudenza non indifferenti incertezze esegetiche relative all’esatta individuazione dell’efficacia della l. n. 108 del 1996 nel tempo. Tali incertezze hanno verosimilmente tratto origine sia dalla mancata previsione di una disciplina transitoria per regolamentare i rapporti di mutuo già in corso al momento dell’entrata in vigore della legge, sia da una discrasia rinvenibile tra la discipina penale e quella civile del fenomeno usurario (l’art. 644 c.p. punisce «chiunque […] si fa dare o promettere […] interessi o altri vantaggi usurari», mentre l’art. 1815, comma 2, c.c. commina la sanzione della non debenza di interessi soltanto «se sono convenuti interessi usurari»), sia, piú in generale, da un’oggettiva difficoltà di tipo ricostruttivo derivante dalla concreta formulazione delle norme e dalle peculiarità del sistema di rilevazioni trimestrali introdotto.

Anzitutto, la considerazione che la norma penale, a differenza di quella civile, faccia inequivoco riferimento alla dazione, oltre che alla promessa, degli interessi (o degli altri vantaggi) usurari ha indotto alcuni autori a sostenere, col conforto anche di una pronuncia della Cassazione penale[26], che il solo pagamento di interessi obiettivamente usurari (in quanto superiori al tasso soglia vigente), a prescindere dall’eventuale esistenza e liceità di una precedente pattuizione quale titolo a fondamento dello stesso, integrerebbe gli estremi del reato di usura e – sembra di aver compreso – comporterebbe altresí l’applicazione al mutuante della sanzione civile della perdita totale di interessi in aggiunta a quella penale[27].

Di là da queste isolate posizioni tese a riconoscere autonomo rilievo al momento del pagamento ai fini della valutazione di usurarietà, l’interrogativo che piú di ogni altro ha impegnato i giuristi che si sono confrontati col tema dell’usura è emerso in relazione all’individuazione dell’incidenza dello ius superveniens sui rapporti di mutuo in corso[28], cioè a dire delle conseguenze penali e civili da riconnettere all’ipotesi in cui il tasso d’interessi previsto in un contratto di mutuo (tanto se stipulato in epoca anteriore all’entrata in vigore della l. n. 108 del 1996 e quindi fuori dall’impianto normativo dalla stessa introdotto, quanto se stipulato in epoca successiva e nel rispetto dei parametri da essa stabiliti) si trovi ad essere, durante lo svolgimento del rapporto, superiore al tasso soglia determinato sulla base delle rilevazioni trimestrali del Ministero del tesoro. Proprio al fine di descrivere questa peculiare ipotesi, è stata coniata l’espressione «usurarietà sopravvenuta», ad indicare la circostanza che la misura degli interessi pattuiti, ancorché originariamente lecita, diviene in un certo momento superiore al limite obiettivamente determinato dalla norma[29].
Esclusa unanimemente l’applicabilità della disciplina penale ad una fattispecie di tal genere, atteso l’ineludibile disposto dell’art. 25, comma 2, cost., sul piano civilistico le risposte della dottrina non sono state univoche. Nessuno ha mai avanzato, beninteso, dubbi sull’àmbito di operatività dell’art. 1815, comma 2, c.c., la cui lettera è inequivoca nel prevedere la nullità della clausola feneratizia solo qualora l’usurarietà risulti coeva alla stipulazione[30]; ci si è domandati, piú in generale, se la ratio e la funzione della legge sull’usura, considerata nel suo complesso, non imponessero di enucleare, per via interpretativa, una disciplina da riservare ai casi di usurarietà sopravvenuta, benché questi non siano oggetto di un’esplicita e puntuale previsione normativa.
A tal proposito parte della dottrina ha riflettuto sull’eventualità che alla l. n. 108 del 1996 potesse essere riconosciuta efficacia retroattiva. Tenendo a mente che il principio di irretroattività della legge non assume, con riferimento al diritto civile, rilievo costituzionale (l’art. 11, comma 1, disp. prel. c.c. è norma ordinaria, in quanto tale derogabile da ogni altra legge ordinaria che disponga in senso contrario), è stata sottolineata la facoltà del legislatore di attribuire efficacia retroattiva ad un provvedimento normativo non soltanto in maniera esplicita, ma anche implicitamente, quando la retroattività risulti desumibile dallo scopo e dalla funzione del provvedimento stesso[31].

In realtà, tuttavia, il vero problema posto dall’usurarietà sopravvenuta prescindeva da considerazioni relative all’ipotetica retroattività della l. n. 108 del 1996. Come ha messo in luce un’autorevole dottrina, infatti, «legge non retroattiva significa, in concreto, legge che non influisce sul fatto compiuto. […] Se la nuova legge non influisce sul fatto compiuto, essa ne regola però gli effetti presenti»; ciò non equivale a rendere retroattiva la nuova legge; ritenere il contrario, semmai, equivarrebbe a rendere ultrattiva la vecchia legge[32]. Sulla scorta di analoga argomentazione, in altro àmbito fatta propria anche dalla Corte costituzionale in una nota sentenza relativa alla l. 17 febbraio 1992, n. 154 [33], si è pervenuti alla conclusione che la legge sull’usura (e con essa la norma che prevede il limite alla misura degli interessi lecitamente pattuibile) debba trovare applicazione non eccezionalmente ed in via retroattiva al contratto di mutuo inteso come fatto-generatore di effetti giuridici, bensí fisiologicamente ed in via diretta a tali effetti, sí da regolare, nel suo svolgimento, il rapporto giuridico sorto dal fatto-generatore-contratto[34].

Quid iuris, dunque, nel caso di usurarietà sopravvenuta?

Una voce isolata in dottrina, ancorché autorevole, ha suggerito un duplice ordine di soluzioni; entrambe risentono profondamente della convinzione, da parte dell’autore che le ha formulate, che il solo pagamento di interessi «obiettivamente usurari» integri il reato di cui all’art. 644 c.p.[35]. È stato proposto il ricorso alternativo, da un lato, ad una spontanea rinegoziazione tra le parti, al fine di ricondurre il tasso d’interessi entro il limite normativamente imposto; dall’altro, allo strumento della risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione[36].

Per il resto, la prevalente dottrina è giunta, seppure attraverso differenti percorsi ermeneutici, a ricostruzioni sostanzialmente coincidenti in relazione agli effetti dell’usurarietà sopravvenuta. V’è stato chi ha prospettato l’operatività, attraverso il coordinamento degli artt. 1419, comma 1 e 1424 c.c., del meccanismo della conversione del negozio nullo, «in applicazione del cui regime» si configurerebbe una «soluzione tendente a ridurre – ovviamente solo per il futuro – la (non piú legittima) misura degli interessi a quella massima successivamente consentita»[37]. Taluno ha, invece, avanzato l’ipotesi – senza meglio specificare – che dall’usurarietà sopravvenuta derivi una sopravvenuta inesigibilità della prestazione relativamente alla parte degli interessi eccedente il tasso soglia[38]; talaltro ha sostenuto la tesi – sostanzialmente analoga, ancorché piú diffusamente argomentata – che «il creditore, il quale chieda l’esecuzione del contratto alle condizioni originariamente pattuite, ma non piú tollerate dal legislatore (rectius, dall’autorità amministrativa[39]), pone in essere una condotta contraria al canone della buona fede», sí che «non perderà gli interessi maturati […], ma potrà richiederli in misura non eccedente il tasso-soglia risultante dall’ultimo aggiornamento trimestrale»[40]. In ogni caso, come si vede, tutte le soluzioni proposte convergono verso la medesima direzione: l’usurarietà sopravvenuta determinerebbe l’impossibilità per il mutuante di pretendere il tasso d’interesse (lecitamente) pattuito (e «divenuto usurario»), importandone la riduzione al tasso soglia risultante dalle rilevazioni operate dal Ministero del tesoro[41].

Solo parzialmente divergente, infine, è la posizione di chi ha suggerito che il problema dell’usurarietà sopravvenuta vada inquadrato nell’alveo della categoria della nullità parziale (necessaria) sopravvenuta e comporti, dunque, l’operatività del combinato disposto degli artt. 1419, comma 2 e 1339 c.c. Secondo questa tesi, una volta espunta dal regolamento negoziale la clausola contemplativa degli interessi «divenuti usurari», l’integrazione automatica dovrebbe agire sostituendo il tasso pattuito non (e qui sta la peculiarità) con il tasso soglia, bensí con il tasso annuo effettivo globale medio, la cui applicazione è reputata «sicuramente piú omogenea e funzionale» alle «finalità della l. n. 108 del 1996, che – com’è stato da piú parti sottolineato – si ispirano all’esigenza di razionalizzare il mercato del credito, mediante l’introduzione di un sistema di limitazioni costanti degli interessi idoneo a determinare anche un abbassamento del costo del denaro»[42].

4. Segue: …e nelle applicazioni della giurisprudenza di merito e di legittimità.

Sin dalle prime applicazioni pratiche, i giudici di merito sono apparsi estremamente disorientati dinanzi alla novità rappresentata dalla l. n. 108 del 1996 ed hanno offerto interpretazioni recisamente contrastanti[43]. Con due decisioni emanate a poco tempo di distanza l’una dall’altra, lo stesso tribunale ha reputato che la dinamica della determinazione delle soglie di liceità degli interessi risulti indifferente in relazione alla sorte di contratti ab origine non usurari (nella specie stipulati prima dell’entrata in vigore della legge sull’usura), sí che gli interessi pattuiti, ancorché superiori al tasso soglia del momento, avrebbero dovuto essere corrisposti ugualmente nella misura concordata[44].

Per converso, in un altro caso si è sostenuta l’immediata incidenza sui rapporti in corso delle nuove norme anti-usura (perché in vigore al momento – scilicet! – della decisione), sí da preconizzare la generalizzata applicabilità dell’art. 1815, coma 2, c.c. ai casi di usurarietà sopravvenuta e, dunque, la conseguente nullità delle clausole feneratizie, salvo trarre da tali – già di per sé opinabili – premesse l’incomprensibile deduzione che «gli interessi devono essere corrisposti nella misura legale»[45].

Ad un’ulteriore soluzione sono pervenuti due differenti giudici, i quali hanno espresso entrambi la convinzione che, nonostante l’art. 1815, comma 2, c.c. debba essere considerato applicabile unicamente alle convenzioni usurarie, l’usurarietà sopravvenuta determinerebbe comunque l’impossibilità di una legittima riscossione di interessi obiettivamente superiori alla misura consentita ed imporrebbe quindi un abbassamento del tasso pattuito sino a ricondurlo nei limiti del tasso soglia[46].

La situazione di incertezza nella giurisprudenza di merito circa l’incidenza dello ius superveniens sui rapporti di mutuo in corso si è procrastinata sino a quando la S. corte, in adempimento della propria funzione nomofilattica, è intervenuta per ben tre volte sull’argomento ed ha dissipato – almeno sotto il profilo applicativo – ogni perplessità esegetica[47]. La prima delle tre pronunce è quella meno significativa, giacché si limita a segnalare, peraltro solo in obiter dictum, come «la sopravvenuta legge n. 108/1996, di per sé evidentemente non retroattiva, e dunque insuscettibile d’operare rispetto agli anteriori contratti di mutuo, sia di immediata applicazione nei correlativi rapporti, limitatamente alla regolamentazione di effetti ancóra in corso»[48].

Estremamente piú pregnante si rivela, invece, il contenuto della seconda tra le decisioni in discorso. A meno di due mesi e mezzo di distanza dal primo intervento, la Cassazione ha avuto modo di proseguire nel percorso argomentativo intrapreso, specificando, anzitutto, l’applicabilità delle disposizioni della l. n. 108 del 1996 non solo agli interessi compensativi (rectius corrispettivi), ma anche a quelli moratòri. La motivazione della sentenza procede, poi, col rilevare che, nonostante «in via di principio il giudizio di validità» debba «essere condotto alla stregua della normativa in vigore al momento della conclusione del contratto», è comunque «insostenibile la tesi che subordina l’applicabilità dell’art. 1419, secondo comma, Codice civile, all’anteriorità della legge rispetto al contratto, poiché l’inserimento ex art. 1339 Codice civile del nuovo tasso incontra l’unico limite che si tratti di prestazioni non ancóra eseguite». Ebbene, in considerazione del fatto che, nel contratto di mutuo, l’obbligazione di corrispondere gli interessi non si esaurisce in un’unica prestazione, concretandosi al contrario in una serie di prestazioni successive, il problema dell’applicabilità dello ius superveniens ai rapporti in corso è stato cosí risolto: «[…] Quando anche non si volesse aderire alla configurabilità della nullità parziale sopravvenuta (come sembra preferibile), tuttavia non si potrebbe comunque continuare a dare effetto alla pattuizione di interessi superiori alla soglia usuraria, a fronte di un principio introdotto nell’ordinamento con valore generale e di un rapporto non ancóra esaurito». È stata, dunque, accolta la censura del ricorrente, che prospettava «l’usurarietà dell’interesse sotto il profilo dell’eccedenza rispetto al c.d. tasso soglia»[49].

Con l’ultima pronuncia, la Corte ha preliminarmente compiuto un approfondito excursus sulle argomentazioni contenute nelle precedenti due decisioni; dopo averne ribadito integralmente la validità, è pervenuta all’enucleazione di un ulteriore principio concernente l’usurarietà sopravvenuta: la «rilevabilità d’ufficio della nullità […] della clausola relativa agli interessi del contratto di mutuo»[50].

In sostanza, le indicazioni provenienti dall’organo che, nel nostro ordinamento, ha la funzione di garantire in via esclusiva la corretta ed uniforme interpretazione del diritto si presentavano chiare ed inequivoche: la l. n. 108 del 1996 si applica a tutti i rapporti derivanti dalla stipulazione (non importa se anteriore o posteriore alla sua entrata in vigore) di contratti di mutuo; in ipotesi di usurarietà sopravvenuta gli interessi – non solo corrispettivi, ma anche moratòri – «divenuti usurari» non sono legittimamente riscuotibili; la misura degli stessi deve essere necessariamente ridotta a quella della misura massima consentita, cioè a dire del tasso soglia; la nullità della clausola relativa agli interessi è rilevabile non solo su eccezione di parte, ma anche d’ufficio.

5. L’interpretazione autentica della legge sull’usura contenuta nel d.l. n. 394 del 2000, successivamente convertito in l. n. 24 del 2001.

Di fronte al progressivo consolidamento dell’indirizzo giurisprudenziale di cui si è fin qui discorso, il Governo non ha fatto attendere la sua presa di posizione. A meno di due mesi dall’ultima pronuncia della Cassazione, vestíti i panni del legislatore, non ha esitato a prospettare (recte imporre) la propria opzione esegetica, attraverso l’emanazione del d.l. n. 394 del 2000, successivamente convertito in l. n. 24 del 2001. Scopo dell’intervento normativo[51], quello di correggere l’orientamento ermeneutico ormai pacificamente accolto dai giudici di legittimità, al fine di «troncare sul nascere le voci allarmistiche diffuse all’indomani del deposito della sent. 14899/00 e di bloccare la conflittualità connessa alle (paventate) richieste di rimborso dei mutuatari»[52].
Cosí, in conformità alle teorie vichiane sui «corsi e ricorsi storici» o a quelle sull’«eterno ritorno dell’uguale» di nietzscheana memoria, si è ripetuta, identica a sé stessa, la vicenda già vissuta in materia di anatocismo con il cosiddetto «decreto salva-interessi»[53]. Lasciatosi persuadére dal malcontento crescente tra gli operatori del settore creditizio, il Governo non ha esitato, con un «colpo di cancellino»[54], a depennare ogni risultato interpretativo raggiunto da dottrina e giurisprudenza sul tema dell’usurarietà sopravvenuta, con una norma di interpretazione autentica, in virtú della quale la valutazione dell’usurarietà degli interessi deve essere compiuta – ai fini dell’applicazione tanto della disciplina penale quanto di quella civile – nel momento della promessa o della convenzione, restando irrilevante quello del loro pagamento.

Anzitutto, desta curiosità, se è ancóra valido il principio cuius est condere eius est interpretari, la circostanza che l’interpretazione della disposizione provenga da un organo differente rispetto a quello che tale disposizione aveva formulato ed approvato[55].

Ciò che piú conta, comunque, è che la norma interpretativa, emanata all’esplicito fine di contraddire un orientamento ormai consolidato della Cassazione, si è inserita in un contesto giurisprudenziale scevro di incertezze esegetiche sull’applicazione della l. n. 108 del 1996[56]. Essa inoltre, se sul piano civilistico si presenta perlomeno ridondante[57], su quello penalistico contiene una disposizione che collide in maniera stridente con la formulazione della norma interpretata, che continua a punire chiunque «si fa dare o promettere […] interessi o altri vantaggi usurari». Si tratta, in sostanza, di un provvedimento normativo di interpretazione autentica che, come spesso accade, ha di per sé efficacia innovativa e «non si afferma per la sua esattezza ma per la sua imperatività che sottende una valutazione di discrezionalità politica legislativa»[58].

È questo, del resto, il punto nevralgico su cui si è innestata la sentenza n. 29 del 2002 della Corte costituzionale, della quale si rende ora necessario sceverare il significato e la portata in relazione alla disciplina dei contratti di mutuo usurari, nonché alla sorte del concetto di usurarietà sopravvenuta.

6. Analisi critica della sentenza: i presupposti di legittimità di una norma interpretativa e l’infausta sorte dell’usurarietà sopravvenuta.

Il sostanziale riconoscimento della legittimità costituzionale del d.l. n. 394 del 2000 (rectius la negazione della sua illegittimità per i profili denunciati), operato dalla sentenza della Corte costituzionale in esame, impone un’attenta rimeditazione del problema dell’incidenza dello ius superveniens sui rapporti di mutuo in corso. L’indicazione che, con piú certezza, sembra lecito inferirne, concerne la sorte di quell’istituto che, seppur non disciplinato positivamente, aveva fatto ingresso per via interpretativa nel nostro ordinamento: l’usurarietà sopravvenuta. Sorte non fausta, giacché la volontà legislativa di liberarsene definitivamente è apparsa, con l’emanazione del d.l. n. 394 del 2000 e della l. n. 24 del 2001, chiara ed inequivoca. Ancorando, infatti, la valutazione di usurarietà al momento della convenzione e sancendo l’assoluta irrilevanza di quello del pagamento degli interessi, il legislatore ha inteso escludere radicalmente che interessi lecitamente pattuiti ab origine possano assumere carattere usurario in virtú di accadimenti relativi al successivo svolgimento del rapporto[59]. E in ciò ha ottenuto l’autorevole avallo (peraltro inimpugnabile[60]) dell’organo deputato al controllo di legittimità costituzionale degli atti normativi aventi forza di legge.

Questo non significa, beninteso, che la pronuncia in discorso, nella parte in cui ha respinto le censure sollevate dai giudici a quibus, contenga un accertamento positivo della legittimità della norma che formava oggetto del giudizio, e ne consacri, per cosí dire, la costituzionalità, dal momento che – com’è noto – le sentenze di rigetto del Giudice delle leggi non hanno effetti generali, ma limitati al caso deciso, e contengono, dunque, soltanto l’accertamento dell’insussistenza di quei determinati vizi che erano stati denunciati nell’ordinanza di remissione[61]. Purtuttavia, anche a prescindere dalla considerazione che talune volte l’attività della Corte costituzionale contribuisce a creare o modificare il diritto (ciò che accade, invero, con le sentenze interpretative e, piú incisivamente, con quelle manipolativo-additive), dalla decisione in argomento sembra di dover desumere una precisa scelta di condivisione della politica legislativa perseguíta attraverso il d.l. n. 394 del 2000, tesa alla salvaguardia del sistema creditizio nazionale.

Da questo punto di vista, allora, non è difficile presagire che le questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 1, d.l. n. 394 del 2000 già sollevate da altri giudici e non ancóra decise dalla Consulta, siano verosimilmente destinate ad andare incontro al medesimo destino spettato a quelle di cui si sta qui trattando[62]. Ciò appare, del resto, ancór piú plausibile se si considera che Corte cost. n. 29 del 2002 ha offerto, della propria decisione, una motivazione che si presenta, sotto diversi profili, perlomeno opinabile; il che contribuisce a conferire alla pronuncia una connotazione eminentemente «politica».

Come si è detto[63], il fulcro argomentativo della pronuncia in discorso è rappresentato dalle osservazioni espresse in merito alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, per contrasto con l’art. 3 cost., sotto il profilo del generale canone di ragionevolezza cui dovrebbe costantemente ispirarsi l’azione legislativa. È appena il caso di rammentare, a tal proposito, che le ragioni giuridiche sulla base delle quali la Consulta ha deciso di rigettare le eccezioni di illegittimità sollevate dai giudici di Benevento e Taranto sono essenzialmente due, legate tra loro da uno stretto vincolo di connessione logica. Da un lato, è stata sottolineata la facoltà del legislatore di emanare leggi interpretative, eventualmente anche al fine di imporre l’adozione di un’esegesi di una norma assolutamente antitetica a quella accolta pacificamente dalla giurisprudenza. Dall’altro, si è ritenuto che l’interpretazione prevista dal d.l. n. 394 del 2000 sia perfettamente conforme al generale principio di ragionevolezza e risulti altresí pienamente compatibile con il tenore letterale e la ratio della legge interpretata.

Ora, la prima delle considerazioni potrebbe forse meritare condivisione. I presupposti e le condizioni di legittimità di una legge interpretativa rappresentano, infatti, un dato ormai acquisito dalla nostra cultura giuridica, sia sul piano dottrinale che su quello giurisprudenziale. Nonostante in tempi passati qualche autore abbia inteso sostenere che l’interpretazione autentica contrasti di per sé con il principio di separazione dei poteri[64], la linea di pensiero divenuta maggioritaria è nel senso che una legge interpretativa non diverga essenzialmente da una legge innovativa con effetto retroattivo[65]. Essa, dunque, incontra il solo limite costituzionale del divieto di retroattività in materia penale (art. 25, comma 2, cost.), che non sussiste, naturalmente, in caso di norma penale piú favorevole al reo. Da questo punto di vista, allora, il contenuto del d.l. n. 394 del 2000 deve essere considerato del tutto legittimo, dal momento che, sul versante penalistico, si concreta in un sostanziale favor libertatis[66].

Sia consentita, tuttavia, qualche riflessione in merito alle argomentazioni addotte a sostegno della ragionevolezza del decreto in discorso e della sua assertivamente piena compatibilità con il tenore e la ratio della legge sull’usura. Anzitutto deve rilevarsi che l’espressione di un giudizio di ragionevolezza su una norma di interpretazione autentica (id est su una norma innovativa e retroattiva) non può prescindere dal previo positivo esperimento di un duplice ordine di analisi. In primo luogo, è necessario vagliare la legittimità costituzionale del provvedimento sotto il profilo della parità di trattamento rispetto ai soggetti che, sulla base della legge autenticamente interpretata e antecedentemente all’emanazione della legge interpretativa, abbiano acquisito diritti o si siano comunque trovati in posizione comparativamente piú favorevole. In secondo luogo, bisogna verificare se, e fino a che punto, sia stato leso il legittimo affidamento del cittadino nella certezza del diritto[67].

Valutazioni, entrambe, che il Giudice delle leggi si è astenuto dal compiere, in ciò favorito verosimilmente anche dalla poca chiarezza e linearità con cui le questioni sono state prospettate dai giudici remittenti[68]. Se, al contrario, con tali problematiche si fosse confrontato, difficilmente avrebbe potuto superarne le aporie. È infatti proprio il tradizionale orientamento della giurisprudenza costituzionale, richiamato dalla stessa Corte (verrebbe da dire ad usum delphini)[69], che persuade sufficientemente dell’irrazionalità insita nella scelta legislativa di attribuire effetto retroattivo al d.l. n. 394 del 2000. Quando – come nel caso in argomento – non sussiste alcuna incertezza giurisprudenziale sull’applicazione della norma interpretata[70], le condizioni alla cui sussistenza deve essere subordinata la possibilità di emanare una disposizione interpretativa con efficacia retroattiva sono particolarmente rigorose, a cagione dell’elevata probabilità che vengano contemporaneamente lesi gli interessi tutelati nel periodo di vigenza della disposizione interpretata (secondo l’esegesi unanimemente offertane) e, unitamente ad essi, l’affidamento del cittadino nella certezza dell’ordinamento giuridico[71].

Ebbene, in relazione all’interpretazione autentica della l. n. 108 del 1996 non v’è dubbio che la norma interpretativa abbia imposto un’esegesi della norma interpretata palesemente difforme da quella accolta dalla Corte di cassazione. Nulla vietava, beninteso, al legislatore di introdurre nell’ordinamento una disposizione del tenore di quella contenuta nel d.l. n. 394 del 2000, ma a condizione che la stessa fosse destinata ad esplicare efficacia soltanto per l’avvenire. Di contro, la scelta di attribuirle effetto retroattivo ha determinato, di fatto, sia un’ingiustificato sacrificio delle situazioni giuridiche di quei soggetti ai quali – in virtú dell’interpretazione disattesa – erano stati riconosciuti dei vantaggi, sia una gratuita compromissione del valore della certezza del diritto, ineludibile corollario di quello dell’unitarietà del sistema normativo.

Si conceda, inoltre, di esprimere qualche perplessità sull’affermata conformità dell’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000 al tenore letterale degli artt. 644 c.p. e 1815, comma 2, c.c. Nonostante la Corte appaia consapevole della circostanza che la norma penale fa riferimento, a differenza di quella civile, anche all’elemento della dazione di interessi o di altri vantaggi usurari[72], nella motivazione della sentenza non si rinviene alcuna argomentazione a sostegno della conciliabilità di tale dato con il rilievo attribuito, dal provvedimento di interpretazione autentica, al solo momento della promessa o della convenzione, sí che la considerazione sembra un’asserzione piú postulata che dimostrata[73].

Un’ultima, e forse piú significativa, riflessione sorge spontanea, infine, in relazione al tema della ratio della legge sull’usura. Allo stato, naturalmente, deve considerarsi che, al fine di condurre un’interpretazione teleologicamente orientata dell’attuale disciplina in materia di usura, non può prescindersi anche dalle indicazioni sulla voluntas legis ricavabili dal d.l. n. 394 del 2000 e dalla l. n. 24 del 2001, da cui è d’obbligo desumere l’esplicita intenzione di limitare l’applicazione della l. n. 108 del 1996 ai casi in cui l’usurarietà degli interessi sia rilevabile al tempo della stipulazione[74]. Ciò nonostante, si intende esprimere una perplessità, che esula da problematiche relative a questioni di legittimità costituzionale e attiene a considerazioni di carattere politico-legislativo ed a valutazioni, per cosí dire, de iure condendo. L’interrogativo che si prospetta è se, a prescindere da potenziali violazioni dell’art. 3 cost., debba reputarsi coerente con sé stesso un legislatore che, per un verso, sembra voler tutelare intensamente un soggetto che ha tutti i requisiti per essere considerato un «contraente debole» e, per un altro, scientemente limita la protezione testé offerta al momento costitutivo del rapporto in cui si estrinseca la «debolezza» del soggetto medesimo, negandogliela invece nel momento attuativo.

Ebbene, non è senz’altro questa la sede per avventurarsi in considerazioni relative all’importanza, vieppiú crescente, che nel nostro ordinamento vanno assumendo il principio di proporzionalità ed il valore dell’equilibrio delle posizioni contrattuali[75]. Nondimeno, anche a non voler accedere alla tesi secondo cui, una volta che il legislatore abbia fissato le regole tendenti a predeterminare il giusto prezzo del denaro, sia consentito all’autorità giudiziaria di intervenire sul contenuto contrattuale – anche a prescindere dalla sussistenza di eventuali abusi o scorrettezze nel procedimento di formazione dello stesso – al fine di assicurare l’equilibrio economico tra le prestazioni delle parti[76], l’opzione legislativa di espungere sic et simpliciter dall’ordinamento il concetto di usurarietà sopravvenuta non sembra consona ai princípi di uno Stato «sociale» né rispondente alle esigenze di uguaglianza sostanziale postulate dall’art. 3, comma 2, cost. Essa comporta infatti che, nei rapporti derivanti da contratti di mutuo validamente stipulati ab origine (che hanno di regola lunga o lunghissima durata), restino irrilevanti eventuali oscillazioni dei tassi d’interesse nei confronti del mutuatario, sí che questi, naufrago derelitto tra i flutti vorticosi di quel pericoloso oceano che è il mercato del credito, potrebbe trovarsi a dover corrispondere, in caso di eccezionale discesa dei tassi, interessi in misura eccessivamente ed ingiustificatamente remunerativa del capitale preso a prestito.

7. Segue: possibili profili ricostruttivi.

S’impone a questo punto una precisazione. Le osservazioni critiche sin qui riservate alla politica legislativa che ha condotto all’emanazione del d.l. n. 394 del 2000 e della l. n. 24 del 2001 (asseverata da Corte cost. n. 29 del 2002) non debbono ingenerare l’impressione che si stia conducendo una strenua ed incondizionata difesa dell’usurarietà sopravvenuta. Sarebbe, infatti, tendenziosa – oltre che incompleta e, dunque, inesatta – una ricostruzione delle problematiche relative all’incidenza dello ius superveniens sui rapporti di mutuo in corso che trascurasse di esaminare le potenzialità fortemente sperequative insite nell’orientamento giurisprudenziale affermatosi in tema di usurarietà sopravvenuta.

Nel sottolineare l’attenzione da dedicare anche alla posizione del soggetto mutuante, parte della dottrina ha correttamente ricordato che, il piú delle volte, un’impresa creditizia, confidando nella legittimità del tasso d’interesse convenuto in un mutuo a tasso fisso, si approvvigiona della provvista di denaro necessaria a concedere un finanziamento e ne sostiene i relativi costi (la cui entità è – ovviamente – direttamente proporzionale a quella dei tassi medi vigenti in quel determinato momento). Qualora, a causa di un eccezionale abbassamento dei tassi, dovessero verificarsi i presupposti dell’usurarietà sopravvenuta, la sostituzione del tasso pattuito con quello soglia sortirebbe l’effetto di riversare sull’erogatore del mutuo il pregiudizio patrimoniale che nasce dalla infelice scelta speculativa del mutuatario per il tasso fisso[77]. Per converso, al mutuante non sarebbe riconosciuta alcuna tutela per il caso, speculare, di eccezionale aumento dei tassi medi d’interesse (sembra infatti condivisibile la tesi[78] di chi sostiene l’impossibilità per le banche di esercitare lo ius variandi di cui agli artt. 117, comma 5 e 118, d.lg. 1 settembre 1993, n. 385 – Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia – in un rapporto a tempo determinato qual è quello derivante da contratto di mutuo)[79].

Ciò nonostante, anche alla luce di tali considerazioni la scelta di negare la configurabilità dell’usurarietà sopravvenuta resta immeritevole di consenso, poiché si colloca in netta antitesi alle esigenze di razionalizzazione del mercato del credito cui sembrerebbe essersi ispirato il legislatore del 1996[80]. L’obiettivo di perequazione delle posizioni di mutuante e mutuatario è infatti realizzato attraverso un’ingiustificata limitazione del controllo normativo alla fase genetica del rapporto di credito, restandone per il resto irrilevanti le successive sorti, sí che un finanziamento potrebbe restare in vita per anni, valido ed efficace, ancorché stipulato ad un tasso fisso non piú congruo alle sopravvenute condizioni del mercato[81]. Da questo punto di vista, allora, si sarebbe rivelato preferibile un intervento normativo che, eventualmente attraverso l’introduzione di un meccanismo di integrazione legale, avesse reso operativo un sistema di controllo del profilo funzionale del contratto di mutuo tale da conservarne la natura sostanzialmente commutativa e da garantire entrambe le parti dall’alea di imprevedibili e significative oscillazioni dei tassi d’interesse, tanto in ribasso quanto in aumento[82].

Il punto è, comunque, un altro. Il modello introdotto con la l. n. 108 del 1996 è espressione di un’ottica legislativa che si colloca in una concezione «normativistica» (o di rule of law) dell’economia. Allo scopo di perseguire nobili finalità, quali la prevenzione e la repressione della criminalità economica, la tutela dei soggetti economicamente deboli, potenziali vittime dell’usura, nonché il ripristino della funzionalità del mercato creditizio, si è deciso di imporre, nella sostanza, un calmiere del prezzo del denaro. Questo aspetto non può essere sottovalutato, giacché, com’è stato acutamente segnalato, «il dirigismo è alternativo alla concorrenza»[83] e la sovrapposizione di un modello giuridico ai meccanismi del mercato spesso non conduce all’efficienza, indefettibile presupposto per l’attuazione del principio di uguaglianza sostanziale.

Ciò non importa, beninteso, l’auspicio di un ritorno all’ideale liberistico puro sotteso alla concezione classica del capitalismo. È stato infatti correttamente sottolineato, sotto questo profilo, che un’ipotetico «ripiegamento […] del diritto sui sicuri bastioni della razionalità formale, per concentrare le proprie forze unicamente nel compito di assicurare le condizioni minime per il corretto funzionamento del mercato», oltre che potenzialmente pregiudizievole, si porrebbe in netto contrasto con la natura solidarista dello Stato sociale[84]. Nondimeno, una regolamentazione del mercato del credito non può rivelarsi costruttiva se prescinde dalla consapevolezza della necessità primaria di risolverne le disfunzioni e le inefficienze, ripristinando condizioni di effettiva concorrenza all’interno dello stesso, contrastando le pratiche anticompetitive e reprimendo gli abusi degli operatori creditizi[85]. E, probabilmente, non è soltanto questione di ideologia politica.

(*) L’articolo riproduce il contenuto, senza le note, dell’omonimo saggio pubblicato dall’Avv. Gabriele Chiarini sulla Rassegna di Diritto Civile, scaricabile in calce.

Aggiornamento: a fine 2017 le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno definitivamente bocciato l’usura sopravvenuta nei mutui

Come noto, la Corte di Cassazione civile, sez. un., 19/10/2017, n. 24675, ha recentemente risolto ogni questione stabilendo quanto segue:

Nei contratti di mutuo, allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura, come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula, né la pretesa del mutuante, di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato, può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di detta soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto.

CONTENUTI SCARICABILI

  • G. CHIARINI, La Consulta e l’interpretazione autentica della legge sull’usura (l’ultimo saluto all’usurarietà sopravvenuta), in Rassegna di diritto civile, 2004, 4, 1115 (PARTE1PARTE2)

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