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Odontoiatria e Servizi Medico-Dentistici

Vittoria giudiziale per il Medico Odontoiatra difeso dallo Studio

Lo Studio ha assistito con successo un Medico Odontoiatra in una vertenza civile intrapresa da un odontotecnico in relazione alla gestione dello Studio Professionale.

 

La domanda avanzata dall’odontotecnico

In atto di citazione l’odontotecnico asseriva:

  • che tra lui e il dott. A.A. sarebbe intercorso un rapporto di natura associativa relativo alla gestione di uno studio dentistico;
  • che, ad onta della qualificazione sostanziale di cui sopra, le parti avevano predisposto formalmente contratti di locazione, di comodato e di lavoro subordinato;
  • che il dott. A.A. avrebbe mantenuto un comportamento contrattualmente illecito per aver «cessato senza preavviso il rapporto associativo, chiudendo lo studio e dirottandone la clientela altrove»;
  • che l’attore avrebbe subíto danni di rilevante entità non soltanto economici ma anche fisici e psicologici per l’insorgenza di una sindrome ansioso-depressiva.

L’attore concludeva, pertanto, chiedendo al Giudicante di:

«1) dichiarare la risoluzione della società di fatto esistente tra le parti per grave inadempimento del convenuto;

2) condannare il convenuto a risarcire all’attore tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, causati dall’inadempimento del convenuto e consistiti nello sviamento della clientela dello studio dentistico e nella ritardata restituzione degli immobili e delle attrezzature di cui sopra mediante il pagamento di quella somma di denaro che risulterà di giustizia ad istruttoria esperita».

 

La vicenda oggetto di causa

Il dott. A.A., esercente la professione di medico odontoiatra, aveva studio dentistico presso un immobile costituito nel suo complesso da due unità immobiliari accorpate, entrambe di proprietà del sig. Z.Z. e della consorte.

Una delle due unità immobiliari veniva condotta in locazione dal dott. A.A., in forza di regolare contratto stipulato. In ordine all’altra unità immobiliare, il suo utilizzo era stato concesso verbalmente, poco tempo dopo la stipula del predetto contratto di locazione, dai signori Z.Z. e consorte al dott. A.A. in considerazione del fatto che i locali già oggetto di locazione non avevano le dimensioni regolamentari ai fini dell’esercizio della professione medica odontoiatrica.

Parimenti, poco tempo dopo, il dott. A.A. aveva stipulato con il signor Z.Z. un contratto di comodato di alcune attrezzature di laboratorio funzionali all’esercizio della professione medica odontoiatrica.

Lo stesso sig. Z.Z. aveva contestualmente iniziato a prestare la propria attività nell’ambulatorio del dott A.A., dapprima come lavoratore a progetto, da ultimo come lavoratore dipendente con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, con la qualifica di «assistente alla poltrona – livello 3° superiore».

Nell’àmbito delle sue mansioni, il signor Z.Z. prestava assistenza al dott. A.A. mentre curava i pazienti, occupandosi altresí delle altre attività di collaborazione allo studio medico, quali la cura degli appuntamenti dei pazienti, la riscossione e la contabilizzazione dei compensi, il riordino delle cartelle sanitarie, ecc.

Il dott. A.A. corrispondeva complessivamente al sig. Z.Z: lo stipendio mensile secondo contratto, relativamente alla sua posizione di lavoratore dipendente, nonché il canone per l’immobile concesso in locazione.

I rapporti tra il dott. A.A. e il sig. Z.Z. si erano svolti regolarmente orientativamente sino a quando quest’ultimo ha cominciato a fare informalmente presente al Dottore che aveva intenzione di riorganizzare i propri beni e voleva perciò rientrare al piú presto nella piena disponibilità dell’immobile adibito ad ambulatorio medico, oltre che dell’attrezzatura già concessa in comodato.

Al dissenso del dott. A.A. rispetto alle ingiustificate richieste di rilascio immediato provenienti dal signor Z.Z., i rapporti tra le parti si erano notevolmente incrinati.

Il sig. Z.Z., per inciso, già in precedenza aveva costituito assieme alla moglie una società di persone denominata «DENTAL-GREEN DI Z.Z. & C. S.A.S.», la cui sede era stata collocata ad insaputa del dott. A.A. nei locali del suo ambulatorio.

Tale società aveva quale oggetto sociale «L’attività di predisposizione di mezzi e prestazione di servizi […] per l’esercizio dell’attività di centro medico mono e poli specialistici ecc.», come da visura della camera di commercio regolarmente prodotta in giudizio.

Successivamente, nel corso dell’attività lavorativa all’interno dell’ambulatorio, il signor Z.Z. aveva cominciato ad assumere atteggiamenti via via piú litigiosi, anche in presenza di pazienti, tanto che, al fine di salvaguardare il proprio decoro professionale, il dott. A.A. si era visto costretto prima a diradare e per ultimo ad interrompere quasi del tutto l’attività, con il conseguente danno economico e di immagine, del quale si riservava di chiedere conto al signor Z.Z. in separata sede.

Addirittura, era altresí accaduto che:

  • il signor Z.Z., benché sollecitato in tal senso, non aveva reso conto degli incassi dell’ambulatorio da lui riscossi ed annotati su incarico del dott A.A. relativi all’ultimo mese;
  • il signor Z.Z. si era appropriato di importanti documenti relativi alla cura dei pazienti del dott. A.A. (cartelle con diario clinico e riscontro dei pagamenti; modelli in gesso degli stessi pazienti e radiografie correlate) e, benché richiesto, non aveva inteso restituirli, verosimilmente con l’intento di servirsene in futuro per l’attività che desiderava intraprendere con la già costituita società di cui sopra.

In considerazione di quanto sopra, il dott. A.A., quale datore di lavoro, si era visto costretto a contestare i fatti al dipendente Z.Z. ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, e, riservato ogni provvedimento disciplinare, a sospendere quest’ultimo in via cautelare dal servizio con effetto immediato.

Il signor Z.Z. aveva inviato le proprie giustificazioni, contestando gli addebiti e la sospensione disciplinare.

Nonostante la sospensione cautelare adottata, tuttavia, il dott. A.A. aveva avuto motivo di sospettare che il signor Z.Z. si fosse continuato ad introdurre senza autorizzazione alcuna nell’ambulatorio medico dentistico.

In particolare, il dott. A.A. aveva potuto accertare che, tra le ore 20,30 circa di un venerdì e le ore 13 circa di una domenica, ignoti si erano introdotti nell’ambulatorio stesso, che non presentava alcuna traccia di effrazione, avevano asportato l’apparecchio telefonico e chiuso a chiave tre porte interne con asporto delle relative chiavi.

Il dott. A.A. aveva potuto inoltre accertare, collegando alla presa telefonica altro apparecchio, che l’autore dell’asporto del telefono aveva anche attivato servizi telefonici (quali trasferimenti di chiamata e/o altri) che impedivano la ricezione di chiamate provenienti allo studio dall’esterno.

Alla luce di tutto ciò, il dott. A.A. era stato costretto a sporgere denuncia-querela per i reati di:

  • appropriazione indebita aggravata dall’abuso di prestazione d’opera (artt. 646 e 61 n. 11 c.p.);
  • furto aggravato (artt. 624 e 625 n. 2 c.p.);
  • violazione di domicilio (art. 614 c.p.).

Allo stato attuale pendeva, infatti, contro il signor A.A. procedimento penale per i reati di cui sopra.

 

Le argomentazioni difensive dell’Odontoiatra

Alla luce della ricostruzione che precede, suffragata dall’ampia ed esaustiva documentazione depositata a corredo, emergeva con tutta evidenza che le allegazioni attoree erano destituite di fondamento.

Era infatti perspicuo che i rapporti intercorsi tra le parti non avessero alcuna «natura associativa», configurandosi esattamente nei termini risultanti dalle pattuizioni formalmente intervenute (ossia in termini di locazione, lavoro subordinato e comodato).

Tale natura risultava, d’altronde, confermata anche dal comportamento che le parti avevano tenuto dopo la conclusione degli accordi (cfr. le ricevute di pagamento dei canoni di locazione; le contestazioni disciplinari, le giustificazioni della lavoratrice, nonché i suoi attestati di malattia; le richieste di restituzione dei beni concessi in comodato).

Per mero scrupolo difensivo, si osservava peraltro che l’ipotetica simulazione degli accordi formalmente intervenuti non sarebbe potuta essere provata dalle parti se non con la produzione delle cd. controdichiarazioni scritte, atteso il notorio divieto di cui agli artt. 1417 e 2722 c.c.

Né poteva tacersi, inoltre, che una pretesa «società di fatto» sarebbe risultata  irrimediabilmente nulla, in considerazione del divieto di esercizio in forma societaria delle attività oggetto di professioni protette, il cui esercizio è cioè subordinato alla iscrizione in appositi albi, di cui agli artt. 1 e 2 della legge n. 1815 del 1939, divieto pacificamente reputato applicabile anche alle professioni sanitarie (cfr. Cass. n. 7738 del 1993).

Le professioni protette, del resto, non possono essere svolte da persone non legittimate e perciò non provviste della necessaria preparazione tecnica.

In ogni caso, poi, l’attore spiegava una domanda di risoluzione di un preteso contratto di società di fatto, la quale non era neppure ipoteticamente accoglibile.

Infatti, come insegna la Suprema Corte, nei rapporti societari le norme sull’esclusione del socio hanno carattere speciale e sostituiscono quelle generali sulla risoluzione per inadempimento dei contratti con prestazioni corrispettive, di cui agli artt. 1453 e ss. c.c. Queste ultime, invero,

non sono applicabili al contratto di società sia per la mancanza di interessi contrapposti tra il socio e l’ente sociale, sia per le diverse finalità cui esse sono preposte. Infatti, la risoluzione mette nel nulla il rapporto contrattuale nei confronti della parte inadempiente, con gli effetti restitutori di cui all’art. 1458 c.c., e, nel caso le parti in contratto siano soltanto due, elimina del tutto il rapporto con i reciproci obblighi restitutori delle parti di cui alla citata disposizione di legge; l’esclusione del socio comporta, invece, soltanto lo scioglimento del vincolo sociale limitatamente al socio inadempiente, con il diritto di quest’ultimo esclusivamente ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota, ma non anche, di per sé, lo scioglimento della società, neppure nel caso in cui i soci siano soltanto due, perché, in tale ipotesi, la società si scioglie solo se, nel termine dei sei mesi, non venga ripristinata la pluralità di soci” (Cass. n. 12487 del 1995).

 

La decisione del Tribunale

In sostanza, le pretese dell’attore sono state ritenute assolutamente infondate in fatto ed in diritto.

Pertanto, in accoglimento delle richieste avanzate dall’Avv. Gabriele Chiarini, il Tribunale ha rigettato integralmente la domanda avanzata dall’odontotecnico, che è stato altresì condannato alla rifusione delle spese di lite.

 

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