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Mediazione Immobiliare – Provvigione, Diritti e Doveri del Mediatore

La natura della mediazione tra attività giuridica in senso stretto e mandato

Il saggio commenta la sentenza della Corte di Cassazione civile, sez. III, 14 luglio 2009, n. 16382, con cui si è proposto un deciso superamento dell’annoso dibattito relativo alla natura della mediazione – che la Corte reputa senz’altro un istituto non negoziale – e si è individuato nel “contatto sociale” la fonte delle obbligazioni che incombono sul mediatore e che, se violate, ne determinano la responsabilità contrattuale.

Nel contempo, la mediazione cd. atipica è stata ricondotta nell’alveo del mandato, con la conseguenza che – in presenza di un incarico conferito da una delle parti (mandante) – il mediatore (mandatario) perderebbe il diritto di richiedere la provvigione all’altra parte, nei confronti della quale risponderebbe peraltro ai sensi dell’art. 2043 c.c.

Il provvedimento suscita, invero, interessanti spunti di riflessione, benché non sempre la motivazione appaia integralmente persuasiva.

 

Le luci (soffuse). Il sistema della mediazione tipica disegnato dalla Cassazione ed il “contatto sociale” come fonte delle obbligazioni del mediatore

Com’è noto, la natura contrattuale o non contrattuale della mediazione è assai discussa. Lo stesso legislatore, del resto, non ha preso posizione sul punto, limitandosi a dare la nozione del mediatore e non della mediazione.

Diversamente dalla mediazione cd. atipica, considerata come sicuramente negoziale, la mediazione cd. ordinaria o tipica di cui all’art. 1754 c.c. viene ricondotta talvolta ad una figura contrattuale nominata, talvolta ad una attività giuridica in senso stretto.

Bene, la sentenza in commento aderisce senza riserve alla tesi secondo la quale, prescindendo la mediazione tipica da un sottostante obbligo a carico del mediatore (perché posta in essere «in mancanza di un apposito titolo»), la “messa in relazione” delle parti ai fini della conclusione di un affare dovrebbe essere qualificata senz’altro come giuridica in senso stretto, e non come negoziale.

Richiamando, dunque, l’antica distinzione tra atto e negozio, tale ricostruzione è reputata preferibile perché gli effetti giuridici che l’attività del mediatore produce risultano predeterminati non già da un regolamento di interessi divisato dalle parti in sede contrattuale, bensì dallo stesso legislatore.

Sì che il mediatore, una volta che sia stato concluso l’affare tra i contraenti, acquisterebbe il diritto alla provvigione non in virtù di un contratto, ma sulla base di un mero comportamento legalmente tipizzato, nel quale andrebbe ravvisato uno di quegli atti o fatti idonei – ex art. 1173 c.c, al pari dei contratti o dei fatti illeciti – a determinare la nascita del rapporto obbligatorio con le parti, nell’àmbito del quale si collocherebbe altresì il dovere del mediatore di comunicare alle stesse, ai sensi dell’art. 1759 c.c., le circostanze a lui note relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare.

Ancora: benché prima facie – prosegue la Corte – la responsabilità del mediatore in ordine alla violazione di tale ultimo dovere possa sembrare di natura extracontrattuale, essa dovrebbe a ben vedere reputarsi contrattuale, giacché fondata sul cd. “contatto sociale”, ravvisabile nella situazione di fatto che si realizzerebbe tra l’operatore professionale, soggetto a specifici requisiti formali ed abilitativi, e coloro che su tali requisiti ripongono particolare affidamento, cioè a dire le parti dell’affare intermediato. Dunque, come il medico nei confronti del paziente (prima della riforma operata dalla cd. legge Gelli), così il mediatore risponderebbe nei confronti dei propri “clienti” secondo le regole di cui agli artt. 1218 e segg. c.c., pur in assenza di un preventivo accordo negoziale, in virtù del rapporto qualificato venutosi ad instaurare.

Da tale configurazione deriva, naturalmente, la triplice conseguenza relativa all’onere della prova (nel senso che è il mediatore a dover dimostrare, per liberarsi dalla responsabilità, l’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, potendo invece le parti limitarsi ad allegare l’inadempimento), al termine di prescrizione (che è quello ordinario decennale e non quello quinquennale della responsabilità ex art. 2043 c.c.), nonché – seppure la Corte ometta di sottolinearlo – alla irrisarcibilità del danno oltre la misura di quanto poteva prevedersi nel tempo in cui l’obbligazione è sorta (art. 1225 c.c.).

 

Le ombre (diffuse). Mediazione atipica, mandato e soggetti obbligati al pagamento della provvigione

Accanto alla mediazione cd. ordinaria o tipica, la giurisprudenza suole considerare – come accennato – una mediazione atipica di tipo negoziale, ravvisabile allorquando il mediatore sia esplicitamente incaricato di svolgere attività di promozione di un affare, potendosi poi ulteriormente distinguere tra mediazione atipica unilaterale e bilaterale (secondo che l’incarico sia conferito da una soltanto oppure da entrambe le parti interessate all’affare), nonché tra mediazione atipica senza e con esclusiva (secondo che l’affare possa o non possa essere contemporaneamente promosso anche da altri mediatori), ferma restando la libertà ex art. 1322 c.c. di arricchire il contenuto del contratto con altre pattuizioni come, ad esempio, quella di irrevocabilità temporanea dell’incarico.

Nondimeno, la prestazione caratteristica resa tanto dal mediatore tipico quanto da quello atipico è sempre stata fatta oggetto di unitaria considerazione, con la conseguenza che alla disciplina generale della mediazione tipica si è rimandato per colmare eventuali lacune delle pattuizioni contrattuali di una mediazione atipica.

A differente conclusione sul punto perviene, invece, la decisione in rassegna, la quale reputa opportuno ricondurre la mediazione di tipo contrattuale non già ad una figura atipica, bensì ad un vero e proprio mandato, dovendosi ravvisare nella fattispecie in parola quell’affidamento di un incarico «col quale una parte si obbliga a compiere uno più atti giuridici per conto dell’altra» che darebbe luogo – per definizione – al contratto di cui all’art. 1703 c.c.

Tale ricostruzione – che troverebbe fondamento sia nella prassi contrattuale degli operatori, sia nella disciplina codicistica, sia ancora nella legislazione speciale – comporta, quale dirompente corollario, che il mediatore-mandatario potrebbe vantare il diritto alla provvigione-compenso (sempre in via subordinata all’iscrizione nel ruolo professionale di cui alla legge n. 39 del 1989) non già nei confronti di ciascuna delle parti, ma soltanto verso il proprio mandante, ovverosia la parte dalla quale abbia ricevuto l’incarico, in linea con la previsione degli artt. 1709 e 1720 c.c.

Siffatta ipotesi ermeneutica non convince.

In realtà, a prescindere dalla natura – contrattuale o no – della mediazione, il tratto distintivo di tale figura (tanto nella versione tipica quanto in quella atipica) rispetto al mandato deve essere ravvisato nella doverosità dell’attività che il mandatario si impegna a compiere in forza dell’incarico ricevuto, laddove il mediatore resta tendenzialmente libero di attivarsi per mettere in relazione le parti dell’affare, alla cui conclusione è subordinato il suo diritto alla provvigione.

In tal senso è, d’altronde, orientata la prevalente giurisprudenza, che sottolinea come il mediatore abbia la mera facoltà (o, piuttosto, l’onere, se vuol riscuotere la provvigione) di interporsi tra i contraenti per appianarne le eventuali divergenze e farli pervenire alla conclusione dell’affare, mentre il mandatario ha l’obbligo di eseguire la prestazione oggetto del mandato.

Non sembra, dunque, condivisibile la tesi – prospettata dalla Suprema Corte – secondo cui il semplice fatto di avere ricevuto incarico da una delle parti al fine di promuovere l’affare precluderebbe ipso facto al mediatore la possibilità di richiedere la provvigione all’altra parte.

Si tratta, a ben vedere, di valutare l’incidenza del requisito della cd. imparzialità del mediatore, la quale «non consiste in una generica ed astratta equidistanza dalle parti, né può escludersi per il solo fatto che il mediatore prospetti a taluna di queste la convenienza dell’affare, ma va intesa, conformemente al dettato dell’art. 1754 c.c., come assenza di ogni vincolo di mandato, di prestazione d’opera, di preposizione institoria e di qualsiasi altro rapporto che renda riferibile al dominus l’attività dell’intermediario».

La stessa giurisprudenza, del resto, tende a riconoscere il diritto del mediatore alla provvigione – a prescindere dall’eventuale rapporto intercorrente con una delle parti – ogniqualvolta lo stesso abbia svolto attività utile nei confronti di entrambi i contraenti, quando essi siano stati in grado di rilevarla e di valutare l’opportunità di servirsene. Perciò la parte che si sia giovata consapevolmente dell’attività mediatrice deve essere considerata, in linea di principio, tenuta al pagamento della provvigione, anche qualora il mediatore avesse ricevuto incarico dall’altra parte di promuovere l’affare.

 

Oneri probatori del mediatore tipico

Tra i molteplici obiter dicta formulati nella sentenza in commento, pare opportuno riservare una brevissima riflessione a quello secondo il quale «è evidente che l’attore che agisce per ottenere la provvigione di una mediazione da lui effettuata ha l’onere di dimostrare di non aver agito in posizione di mandatario di una delle parti».

Invero il principio, che finisce per addossare al mediatore un onere probatorio irragionevolmente gravoso, non può essere condiviso.

In conformità al principio generale di cui all’art. 2697 c.c., il mediatore che voglia far valere in giudizio il proprio diritto alla provvigione dovrà limitarsi a provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (e cioè l’aver messo in contatto due o più parti per la conclusione di un affare).

Spetterà semmai alla parte che voglia sottrarsi al pagamento della provvigione allegare – e dimostrare – che l’attore abbia agito senza l’imparzialità del mediatore e, quindi, quale mandatario dell’altra parte (nel senso sopra precisato).

Sarà compito del giudice di merito, infine, qualificare la vicenda in termini di mediazione o di mandato e, conseguentemente, riconoscere o negare il diritto alla provvigione.

 

Responsabilità del mediatore-mandatario verso la parte “non mandante”: risarcimento del danno o ripetizione dell’indebito?

Muovendo dall’assunto secondo cui la mediazione atipica debba – sempre e comunque – essere ricondotta al mandato, la Corte precisa che il mediatore-mandatario risponderebbe, «ove si comporti in modo illecito, a titolo di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., nei confronti del soggetto “destinatario” della sua attività», il quale assumerebbe infatti la qualifica di “terzo”, in quanto estraneo al rapporto contrattuale tra lo stesso mediatore-mandatario ed il mandante.

Perché non operi, in siffatta ipotesi, la teoria del “contatto sociale” – che la Cassazione ha appena richiamato, invece, per qualificare come contrattuale la responsabilità del mediatore tipico verso le parti, con le quali non intercorrerebbe alcun rapporto negoziale – non è chiaro, a fortiori se si considera ciò che dal mediatore-mandatario si pretende in termini di diligenza.

La decisione, infatti, prosegue il proprio iter logico affermando che il mancato assolvimento da parte del mediatore-mandatario dei propri obblighi con la dovuta diligenza professionale «ha ingenerato nell’odierna resistente un affidamento non colpevole sulla corrispondenza alla realtà della situazione apparente, con il conseguente sorgere di responsabilità a suo carico ex art. 2043 c.c.».

Il che, di fatto, postula il riconoscimento in capo al mediatore-mandatario del dovere di comunicazione ex art. 1759 c.c. anche nei confronti della parte “non mandante”.

Ad ogni modo, riconosciuta la responsabilità del mediatore-mandatario, il conseguente obbligo risarcitorio viene in sentenza «parametrato sulla restituzione della ricevuta caparra [recte: provvigione], in favore dell’odierna resistente, che, quale obbligazione di valore, è soggetta sia alla rivalutazione che al pagamento degli ulteriori interessi legali».

Ora, anche questo percorso argomentativo merita analisi critica.

Invero, la qualificazione dell’obbligazione del mediatore-mandatario come debito di valore (e il conseguente riconoscimento della necessità di rivalutarne l’ammontare alla data di decisione) è bensì coerente con l’affermata natura risarcitoria della stessa, ma è proprio quest’ultimo profilo che desta perplessità.

Se, infatti, si discorre di «restituzione della prestazione ricevuta, cioè del compenso per la mediazione», parrebbe opportuno riferirsi alla ripetizione dell’indebito più che al risarcimento del danno.

E l’obbligo di restituzione non può, in tal senso, che costituire debito di valuta, sul quale gravano senz’altro gli interessi legali, oltre all’eventuale maggior danno secondo le regole di cui all’art. 1224, comma 2, c.c.

Sennonché, per inciso, la provvigione – nel sistema della mediazione atipica (ri)disegnato dalla Corte – andrebbe restituita a prescindere dall’accertamento della negligenza del mediatore-mandatario, giacché non potrebbe essere pretesa da altri se non dal mandante. Sì che il “terzo estraneo” potrebbe sempre rifiutarsi di versarla e, se lo avesse indebitamente fatto, potrebbe domandarne in ogni caso la restituzione ai sensi degli artt. 2033 e segg. c.c.

 

Riflessioni conclusive. Diritti e doveri del mediatore

La decisione che si annota ha suscitato vive polemiche e finanche un po’ di preoccupazione tra gli operatori del settore, in special modo a causa dell’inedita equiparazione della mediazione atipica al mandato e delle dirompenti conseguenze in ordine all’individuazione dei soggetti obbligati al pagamento della provvigione.

Ad ogni modo, di là dalle questioni problematiche sin qui sottolineate, può cogliersi nel provvedimento la conferma di una progressiva evoluzione nella determinazione dei confini della responsabilità originata dalla violazione di quanto disposto dall’art. 1759 c.c., a mente del quale il mediatore ha il dovere di comunicare alle parti le circostanze a lui note relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, che possano influire sulla sua conclusione.

Abbandonata definitivamente, infatti, l’originaria impostazione secondo cui l’interpretazione letterale della norma non potesse dar àdito a dubbi circa la limitazione dell’obbligo di comunicazione alle circostanze effettivamente note, la responsabilità del mediatore va arricchendosi di nuovi contenuti.

In particolare, dall’obbligo di comportarsi in buona fede, fondato sulla clausola generale di correttezza di cui all’art. 1175 c.c., deve inferirsi il dovere di una corretta informazione nei confronti delle parti, che implica la comunicazione non soltanto delle circostanze note al mediatore, ma anche di quelle da lui conoscibili sulla base della diligenza qualificata di cui all’art. 1176, comma 2, c.c., vertendosi sicuramente in ipotesi di attività professionale (come peraltro è confermato dalla l. 3 febbraio 1989, n. 39). Dovere che assume intensità crescente in ragione di un duplice parametro: le caratteristiche dell’affare, da una parte, ed il livello di organizzazione del mediatore, dall’altra parte, nel senso che quanto più è complesso o peculiare l’affare e quanto più è organizzata la struttura facente capo al mediatore, tanto più deve essere elevato lo standard di diligenza riservato alle circostanze conoscibili.

Il che appare senz’altro condivisibile, se si considera che – in una società globale ed informatizzata qual è quella attuale – le modalità di comunicazione e le occasioni di connessione fra le persone risultano esponenzialmente moltiplicate rispetto al passato, sì che non è ulteriormente tollerabile la conservazione di una obsoleta concezione del mediatore quale mero strumento di “segnalazione” o “messa in contatto”. Si impone, per contro, la valorizzazione del suo ruolo di professionista dotato di particolari requisiti di cultura e competenza, che lo stesso legislatore ha inteso assegnargli sin dal 1989 e che avvicinano la sua figura al prestatore d’opera intellettuale piuttosto che al procacciatore.

Dunque, è indubbiamente doveroso, per il mediatore, esaminare almeno il titolo di provenienza al fine di verificare l’effettiva titolarità del bene oggetto dell’affare. Ma è parimenti opportuno, se vuole scongiurare il rischio di un addebito di responsabilità, che egli si prodighi in ulteriori indagini – oggigiorno, per il vero, rese assai più agevoli dalla tecnologia telematica – attinenti alla libertà del bene da iscrizioni, trascrizioni o comunque vincoli pregiudizievoli (estraendo le cd. visure catastali e quelle ipotecarie), nonché alla solvibilità delle parti (consultando altresì il registro informatico dei protesti).

 

Il saggio è stato pubblicato in due riviste giuridiche. In calce i link per scaricarne il contenuto.

 

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